giovedì 6 dicembre 2012

Amore e Psiche.2


La favola di Apuleio incanta gli artisti


Le vicissitudini della fanciulla che fa innamorare un dio narrano l’epopea di un’anima

Marco Vallora

"La Stampa",  5 dicembre 2012

Sul cartiglio delle cinquecentesche incisioni attribuite all’ancora misterioso «Maestro del Dado» (un pozzo, da cui tutti attingono, per l’iconografia pittorica della storia di Amore e Psiche) si legge: «Narra Apuleio, che (mentre egli cangiato in asino serviva a genti ladre) / una sposa rubbaro... ». Inizia così la gloriosa epopea d’una delle favole più note dell’antichità, piena di peripezie e sorprese narrative, inscatolate, a pressione, entro le Metamorfosi di Apuleio, scrittore nomade e «discepolo platonico». Proto-romanzo d’avventura (secondo secolo d. C.) influenzato da Luciano, riscoperto da Boccaccio, tradotto da Boiardo. Racconta la magica trasformazione di Lucio in un asino, venduto a dei ladroni. Gli stessi che hanno rapito una fanciulla e la tengono a languire in una caverna. (Qui si ripara anche l’asino: sant’Agostino ribattezzò l’Asino d’oro le Metamorfosi). Una vecchia nutrice con fuso, interrompendo il suo filare, proprio come s’interrompe miracolosamente il romanzo, le racconta la favola di Amore (Eros) e Psiche, che si snoda per molti libri e numerosi «ricami» di luoghi, coinvolgendo cielo, terra, Inferi.
Psiche è una bella fanciulla non nobile, così bella che nelle sue contrade la nominano Afrodite. Ma Venere in persona s’ingelosisce di questo suo doppio terrestre, troppo bella e difficile, per trovare un marito. Ed invia il suo figliolo Eros sulla terra, a colpirla con le sue temibili frecce, per farla innamorare della prima persona che capiti, purché mostruosa. Ma è Eros ad essere colpito della sua venustà: s’innamora di Psiche, ottenendo da lei di amarlo solo di notte. L’iconografia pittorica omaggia spesso questo mistero: coltri e baldacchini manieristi, atmosfere notturne, lanterne e fiaccole, bende e panneggi, ed Eros che depone le sue frecce, accanto alle complici lenzuola, quasi fossero occhiali e cellulari messi in carica. Mentre Psiche si rode di curiosità, soprattutto se hai delle sorelle invidiose, che intrigano, come nella falsariga classica di Cenerentola. Facendole credere che lui è un obbrobrioso mostro serpentinato, e sennò, perché non si mostrerebbe, come un consorte qualsiasi?
Infatti, proprio come capita nelle fiabe migliori (che in fondo si equivalgono) è l’interdetto, che maggiormente le brucia e la scotta. Proprio come nella fiaba di Barbablù o nella storia nordica di Lohengrin, che un’unica cosa chiede, di non chiedergli il suo nome. Ed in più, in questo caso, d’essere amato senza immagine, senz’esser guardato: paradosso figurativo, che ha turbato molta pittura. Una notte, munita d’un coltello (in realtà sarebbe un rasoio) per tema di trovarsi di fronte ad un mostro, e di una lucerna, che finalmente le sveli l’enigma, e che in realtà c’illumina regalmente quelle perfette fattezze nude, di putto serenamente addormentato, Psiche rimane incantata a rimirarselo, come se il tempo non esistesse più. Ma la curiositàdonna va punita, così dalla lucerna esausta scende una goccia malandrina, che ustiona il corpo nudo e tradisce il tradimento. Sulle sue ali di Cupido, Eros fugge via irato, mentre desolata Psiche, che lo ha amato d’un amore invincibile, vaga per il mondo spoglio, impossibilitata a reincontrarlo. Ci si mettono gli Dei (consigli parlamentari nell’Olimpo, così ben rappresentati da Giulio Romano, a Palazzo Tè) a complicare le cose e a divertire il lettore.
Venere stessa, tra il piccato e il pietoso, offre ancora un’ultima chance alla peregrina disperata, infilandola come un fuso, dentro terribili prove iniziatiche, che il Flauto Magico, al confronto, la diresti una passeggiata galante e cicisbea. Discese agli Inferi a dialogare con Proserpina (mito dell’inverno e della resurrezione primaverile). Pecore furiose da tosare dei loro velli d’oro, coppe da riempire a fonti inesistenti, semi da dividere, come in una trasmissione misterica della Carrà. Così ti rendi conto che Apuleio, nato a Madaura e nutrito di cultura orientalnordafricana, sacerdote e avvocato di grido chierico vagante ed iniziato dei Misteri Eleusini, è anche un adepto della cultura neo-platonica, che vuole conciliare la filosofia pagana con il messaggio cristiano. Tra l’altro Apuleio ha sposato Pudentilla, madre molto più vecchia e poco avvenente del suo compagno di studi Ponziano, che muore giovane, lasciandolo tra parenti che lo accusano di plagio e di magia, e lui deve difendersi da solo dalla pena di morte.
Dunque si tratta dell’epopea mistica quotidiana d’un’anima, o Psiche (con ali di farfalla, non a caso: vista l’omonimia in lingua greca di psyké) che deve ricongiungersi con il suo Amore incorruttibile e divino, perché Eros (come l’amore carnale) non è che un viatico graduale verso la Perfezione Ideale. Lo ritroverà in cielo, nel banchetto regale che gli Dei hanno allestito per lei, fanciulla povera e fortunata, assunta nei saloni eleganti d’una reggia chiamata Olimpo. Allora si capisce perché Raffaello, quando deve celebrare, tra l’esubero di tutte le grottesche di Penni, Perin del Vaga, Giovanni da Udine (suggestionate dalla recente scoperta epocale della creduta «grotta» della Domus Aurea) la storia della fanciulla plebea Francesca Ordeaschi, che va sposa con il nobile senese Agostino Chigi, committente della villa, scelga proprio questa storia allegorica ed edificante. E via così, nel Rinascimento: con Giulio Romano a Mantova, Dosso Dossi nei suoi lividi rami, Zucchi con i suoi dettagli medicei, Vouet ed i caravaggeschi, che sfruttano gli effetti notturni e tenebrosi: una goccia bollente per un amore eterno.
Poi viene il neoclassicismo, con Canova e Gerard (protagonisti della mostra di Palazzo Marino), Cavaceppi & C., storie d’ali di farfalla, infragilite nei marmi, un Giove winckelmanniano, che approfitta per lumacare con Eros, ed infine il Romanticismo, che insiste sugli aspetti più terribilisti (per proiettarsi poi sulla nostra contemporaneità, con allusioni in Fabio Mauri, Pistoletto e Paolini). Un’anima, che nel periodo Impero si fa anche specchierina da camera, per riflettere i patemi ed i pallori di troppe signorine innamorate.



Canova. Nel marmo la leggerezza di una farfalla

Amore e Psiche stanti fu scolpito nel 1797 

Gioachino Murat l’acquistò per 2000 zecchini

Fiorella Minervino

Il giardino comincia già fuori, in piazza della Scala, all’entrata della mostra e procede tra i profumi che si diffondono nella Sala Alessi oltre le tre pareti ricoperte di erba sintetica fino all’ultimo spazio destinato all’incantevole Amore e Psiche stanti del Canova. Nulla meglio di questo prato ripensato alla maniera neoclassica per illustrare la favola di Apuleio nelle Metamorfosi, dove la coppia mitologica raffigura l’unione fra anima umana e amore divino. Un luogo adatto a ospitare il capolavoro, forse non il più celebre ma prediletto dall’autore, il campione italiano del Neoclassicismo.
Antonio Canova voleva calarsi nello spirito e nel clima dei classici, greci e latini, tanto da farsi leggere nel suo studio mentre lavorava fin tre volte al giorno i testi di Omero, Tacito, Polibio. Felice esito dell’amore intenso per la classicità evocata dal Winckelmann, il bello ideale universale e la quieta grandezza, la scultura in arrivo dal Louvre grandeggia nella luce che la avvolge e nella platonica serenità che promana. Due teneri giovinetti sono fissati nel marmo candido (Canova li definiva «un gruppetto pudico») e dominano la scena ravvicinati nel turbamento dei corpi nudi levigati e sinuosi sopra il piedestallo adorno di preziose ghirlande di fiori. Il dio poggia la testa sulla spalla di lei cingendola castamente con il braccio, Psiche di bellezza mirabile e dalla nudità appena celata dal delicatissimo velo ai fianchi, posa delicatamente la farfalla, simbolo dell’anima, nella mano di lui. È un gesto sublime, un attimo sospeso, fuori dal tempo, dove l’umano si lega all’eterno. Il prodigio delle dita, la grazia nelle pose, la finezza dei riccioli nella capigliatura di Psyche e lo squisito panneggio sui fianchi raccontano sino a che punto il marmo potesse piegarsi al soffio nuovo dell’arte di Canova, alla «bella natura», il suo ideale di bellezza perfetta.
Alti 150 centimetri circa, i due adolescenti si incontrano e congiungono a nozze, immemori delle mille prove sostenute e dei dissidi celesti nell’Olimpo che li hanno divisi, uniti nella lucentezza e candore del marmo di Carrara dove Canova agitava lo scalpello con la facilità d’un pennello. Figlio d’uno scalpellino di Possagno, dove era nato nel 1757, aveva presto imparato, anche dai copisti di marmi antichi a Roma, a modellare la materia con maestria e scienza personale. Un procedimento che conduceva dal bozzetto vibrante di creta al gesso affidato agli aiutanti, da volgere poi al marmo con numerose rifiniture, come raccontò Hayez. Canova realizzò il gruppo nel 1797 a Roma, mentre si diceva così preoccupato per la desolata nostra nazione e «l’Europa tutta talmente ruinosa che sarei contento di andare in America». L’opera era destinata al colonnello John Campbell in sostituzione della versione famosa (sempre al Louvre) Amore e Psiche giacenti 1787- 83; finirono entrambe nel 1801 per 2000 zecchini a Gioachino Murat, esposte nella galleria del castello di Villiers, dove Napoleone potè ammirarle.
Fama e gloria coronarono il Canova già in vita, come forse nessuno degli artisti amici o ammirati, quali Mengs, Thorwalsen, e fin Piranesi o Batoni, Gavin Hamilton, Proudhon, neppure David. Non volle o mai riconobbe allievi, collezionò cariche e incarichi, con l’esimio merito di ricondurre nel 1815 in Italia dal Louvre alcune opere sottratte dai francesi, incaricato da Pio VII come delegato dello Stato Pontificio a Parigi. Fu venerato e onorato da Papi e dai sovrani d’ Europa, per cui lavorò, compresi Napoleone e Giuseppina Beauharnais e il figlio Eugenio vicerè d’Italia con sede a Milano e Monza. Fedele alla propria arte e condizionato da una salute cagionevole mori a Venezia nel 1822, per poi riposare a Possagno dove è affidato alla storia nel museo a lui dedicato. Oggi il suo genio torna a risplendere in questa mostra a Milano, città che seppe apprezzarlo e amarlo.
Ed è occasione davvero rara questa offerta dall’Eni, di mettere a confronto il celebre scultore con il pittore francese Gérard, nato a Roma da madre italiana, il maggior allievo di David. Le curatrici dell’evento Valeria Merlini e Daniela Storti, si dichiarano assai soddisfatte della formula annuale e di presentare i due esponenti del Neoclassicismo in una città neoclassica come Milano. La Merlini aggiunge che questa è l’opportunità di raffrontare pittura e scultura nelle differenze e aspetti comuni, come le diverse sensibilità e sensualità degli autori. Poi spiega: «Ci lavoriamo dalla scorsa primavera e aspettiamo oltre 200 mila visitatori. Negli anni passati siamo stati premiati da un pubblico vario per età, cultura e provenienza. Per spiegare a chi viene il valore e i segreti di due capolavori sullo stesso tema, creati a un anno di distanza e per la prima volta esposti insieme, ci affidiamo a un gruppo di giovani storici dell’arte che guidano i visitatori della Sala Alessi».


Gèrard. La moderna sensualità di due innamorati

Francesco Poli

Ingres, molto spesso acidamente critico nei riguardi dei suoi colleghi, aveva dichiarato una volta che «Gérard ha abbandonato la pittura e la pittura ha abbandonato lui», aggiungendo però che «quando ha realizzato Psiche e Amore è stato un grande pittore; ha realizzato un capolavoro…».
E in effetti per l’ingrato Ingres (Gérard era stato tra i pochi ad aiutarlo agli inizi, quando era entrato nello studio di David) questo dipinto, esposto con grande successo al Salon parigino del 1798, è stato un punto di riferimento fondamentale. Non tanto come esempio (già allora in auge) di una tematica mitologica disimpegnata e «graziosa», con algide e sofisticate valenze erotiche, ma anche soprattutto per la peculiare elaborazione del linguaggio neoclassico. Gérard lo caratterizza con una straordinaria levità e levigatezza pittorica, e con un formalismo purista tale da subordinare persino la correttezza anatomica all’armonia complessiva dell’impianto compositivo (basta osservare la «impossibile» spalla di Psiche o il collo di Cupido).
Nella suggestiva messa in scena allestita dentro il grande salone di Palazzo Marino, il quadro di François Gérard è il co-protagonista insieme al capolavoro di Antonio Canova, Amore e Psiche stanti, del 1797. La pittura che si confronta con la scultura una bellissima sfida (incentrata su un tema mitico e intramontabile) che nonostante la celebrità dell’avversario, e il fascino assoluto della sua opera marmorea, Gérard è in grado di sostenere quasi ad armi pari.
Bisogna guardarlo a lungo il suo dipinto con le figure in grandezza naturale, per rendersi conto, con uno sguardo attuale (al di là della valutazione storico -critica della indubbia importanza dell’artista) della straniante e «moderna» qualità di questa composizione figurativa ma irreale, e non solo perché mitica. Più rispettoso di Canova del racconto che si legge nell’ Asino d’oro di Apuleio, Gérard ci presenta Psiche nel momento in cui l’invisibile (per lei) Amore le sta per dare un bacio abbracciandola. Ed è per questo che, sorpresa e misteriosamente incantata, i suoi occhi non guardano lui ma davanti verso il vuoto, o meglio (e qui l’artificio del pittore è geniale) verso di noi, i curiosi esterni. Questo incrocio di sguardi fra lei e noi crea una sottile e intensa tensione estetica, che fissa visivamente e direi anche strutturalmente tutta la visione pittorica. Dico fissa, perché l’artista ha dipinto i personaggi in modo tale da quasi annullare l’illusione della forza di gravità, senza ombre portate e senza una convincente integrazione con il paesaggio che fa da sfondo. Inoltre, una ulteriore essenziale magia (o astuzia) pittorica è determinata dalla raffinatissima strategia dell’abbraccio che non è tale. Infatti le braccia di Amore sono attorno e vicinissime al corpo di Psiche ma non lo toccano (anche se c’è una intenzionale ambiguità per quello che riguarda la mano sinistra che sembra toccare la spalla in direzione del seno). Tutto ciò crea un effetto di sospensione, una sensazione di aerea immaterialità e di metafisica idealità. Così Gérard riesce a trasmettere attraverso la forma (molto più che nella raffigurazione descrittiva) un aspetto cruciale del significato profondo della favola mitica, che ci parla di cose indefinibili come l’anima e l’amore, e cioè del mistero della vita umana terrena e del sogno di quella ultraterrena. Nell’iconografia antica (per esempio nella copia romana da un originale ellenico) Psiche ha delle ali di farfalla, ma come nel caso di Canova anche Gérard ha pensato che fossero sufficienti quelle di Cupido, e ha inserito una farfalla vera, non nelle mani dei personaggi come ha fatto lo scultore, ma in volo nel cielo sopra la testa di lei ( psiche in greco vuol dire farfalla). Questo lepidottero ha una sua precisa valenza simbolica ed è allo stesso tempo un particolare naturalistico, dalla fragile e delicata leggerezza. Ma si può leggere formalmente anche come una metafora strutturale di tutto l’insieme della composizione, che si libra sulla tela con la stessa eterea grazia sospesa.

Amore e Psiche a Milano: la parola agli esperti.

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