sabato 13 ottobre 2012

Kandinsky e la nascita dell'astrattismo



Elena Pontiggia, Kandinsky. Nell'anima russa.
I sogni di un ribelle prima dell'esilio La nascita dell'astrattismo nei dipinti che riflettono la cultura della sua terra


A l di là della soglia — che dalla luminescenza solare dei lungarni pisani ci introduce in un atipico corridoio di luci artificiali e ombre — c'è un mondo antico ed esoterico, simbolico e folcloristico. Filatoi contadini, giocattoli di legno, vestiti tradizionali, ataviche novelle con rappresentazioni grafiche, personaggi mitici. E colori, con quelle tonalità così intense da inebriare il visitatore incantato e smarrito per questo salto quantico verso una Russia inattesa.
È la rappresentazione allegorica di quel plancton culturale del quale Wassily Kandinsky si cibò elaborando e trasmutando l'ormai insostenibile leggerezza della cultura europea (che aveva ammaliato e permeato la Grande Madre Russia e, dopo l'invasione napoleonica, aveva iniziato ad appassire) per guardare all'io individuale e all'io sociale, nascosti, rimossi, cancellati, sbiaditi forse come colori amorfi.
È lo stesso cibo che assaggia il visitatore, se pur in un frammento dell'anima piccolo e fugace ma così intenso da restare indelebile, immergendosi nella straordinaria e unica mostra sul padre dell'astrattismo che si inaugura da sabato sino al 3 febbraio del 2013 a Palazzo Blu di Pisa.


È un evento perché per la prima volta in Italia si svela il Kandinsky del periodo russo (1901-1921) e lo si mette a confronto con l'avanguardia del suo tempo, quella del suo Paese natale e quella della Germania, dove Wassily fuggì perseguitato dal regime sovietico. Così le opere di Alexej Jawlensky, Marianne Werefkin e Gabriele Munter (solo per citare alcuni nomi) si intersecano in questo cammino dell'arte, simbolica prima e astratta dopo, di un genio trafitto dal demone dell'arte fin da bambino ma rapito completamente, da avvocato, durante quel viaggio fondamentale, nella regione della Vologda, in Siberia, tra le izbe, le case rurali russe, decorate e colorate e i paesaggi, tanto da aver la sensazione, come scriveva entusiasta e commosso, di «vivere dentro un quadro».
Ed è proprio questa sensazione di realtà virtuale che si percepisce nel corridoio che ci introduce alle tredici sale della mostra in un percorso artistico (e anche un po' metafisico) alla scoperta di un pittore che da un simbolismo, se pur già diverso da quello dei suoi contemporanei, si proietta verso l'astrattismo di cui è l'artefice. Sono 150 le opere esposte a Palazzo Blu, una cinquantina di Kandinsky e le altre di contemporanei (russi e tedeschi), ma ci sono anche dipinti di Arnold Shöenberg (tra i quali un magico autoritratto), amico di Wassily, il genio austriaco inventore della musica dodecafonica. Che anch'essa, probabilmente, può essere in parte paragonata all'astrattismo di Kandinsky, una frattura epistemologica nell'arte del '900.
In una sala, accanto a «Macchia nera», il dipinto del 1912 con il quale l'artista abbandona ormai ogni riferimento figurativo, si sfiorano strumenti sciamanici tra i quali un tamburo, riprodotto (la macchia) nello stesso capolavoro. E sembra quasi di sentirlo vibrare, questo tamtam rituale, insieme a un'orchestra impossibile, che diffonde le cascate di note (e colori) della Sagra della Primavera di Igor Stravinskij.
Si cammina tra le sale che ripropongono i primi dipinti di Kandinsky, in quell'atmosfera simbolista del periodo di Murnau. Si scivola, senza accorgersene, incontro alle grandi tele dell'avanguardia russa e occidentale, intorno al Der Blaue Reiter, e i maggiori protagonisti della sperimentazione russa, da Michail Larionov alla Goncharova. E infine ecco i capolavori, prima della sua fuga dal regime sovietico, quando accetterà da Walter Gropius l'insegnamento al Bauhaus.
Nella sala del drago, se così possiamo chiamarla, l'emozione è al culmine. Ci sono le iconografie di San Giorgio nell'eterna lotta contro il mostro. E c'è la magia di un capolavoro di Wassily: «San Giorgio» (1911). Così, mettendo a confronto icone e dipinto, tradizione e astrattismo, si percepisce quel processo di decostruzione della realtà.
Poco più avanti, ecco la «sala delle barche»; e anche qui un dipinto di un pittore simbolista con le vele sul fiume serve a entrare in «Improvvisazione» (1910) e nell'«Improvvisazione» del 1917 con le «stesse» barche, gli uomini che remano, l'acqua, il cielo.
«È stata una sfida difficile quella di spiegare forse l'artista più concettoso nel Novecento», spiega Claudia Beltramo Ceppi, co-curatrice della mostra insieme Eughenia Petrova, direttrice del museo russo di San Pietroburgo.
Ma perché proprio Kandinsky? «Ci ha affascinato proporre questo periodo particolare della sua vita che segna la definitiva e totale immersione nella pittura — risponde Cosimo Bracci Torsi, presidente della Fondazione Palazzo Blu —. Inoltre, dopo il ciclo dedicato al Mediterraneo con mostre di grandissimo successo su Chagall, Mirò e Picasso, pensiamo a una serie di mostre dedicate all'astrazione».
rea forme completamente nuove.
Wassily Kandinsky. Dalla Russia all'EuropaWassily Kandinsky. Dalla Russia all?Europa    Wassily Kandinsky. Dalla Russia all?Europa    Wassily Kandinsky. Dalla Russia all?Europa    Wassily Kandinsky. Dalla Russia all?Europa    Wassily Kandinsky. Dalla Russia all?Europa    Wassily Kandinsky. Dalla Russia all?Europa    Wassily Kandinsky. Dalla Russia all?Europa
Marco Gasperetti, L’acquerello che portò alla luce un mondo fatto di linee e colori

"Corriere della Sera",  11 ottobre 2012


Dire che l'astrattismo è nato con Kandinsky è come dire che l'America è stata scoperta da Colombo. L'America, in un certo senso, era già conosciuta, perché i Vichinghi vi erano sbarcati intorno all'anno Mille, mezzo millennio prima del navigatore genovese. Però quella scoperta se l'erano tenuta per sé e solo con Colombo l'America è diventata oggetto di conoscenza per tutti.
Con Kandinsky avviene qualcosa di simile. L'astrazione, cioè un'arte «senza oggetti», in cui linee e colori non rappresentano immagini del mondo esterno (astrarre viene appunto dal latino «ab-s-trahere» che significa «tirare via»), esisteva anche prima. I pavimenti cosmateschi del XII-XIII secolo, per fare un esempio tra i tanti possibili, sono formati da intrecci di cerchi, spirali e curve che si potrebbero già considerare astratti. Solo con Kandinsky, però, e precisamente col suo «Primo acquerello astratto» del 1910, l'astrattismo è realizzato e teorizzato consapevolmente.
Certo, in arte, come in tutte le cose dell'uomo, niente nasce dal nulla. Solo due anni prima dell'acquerello di Kandinsky uno studente tedesco, Wilhelm Worringer, aveva discusso all'Università di Berna una tesi intitolata «Astrazione ed empatia», in cui sosteneva che l'arte non nasce per riprodurre la realtà, ma «tende alla pura astrazione». Chi avesse avuto la pazienza (ce ne voleva tanta) di leggere lo scritto, avrebbe capito che riguardava soprattutto l'espressionismo, nato poco tempo prima, ma intanto il nome e il concetto di Abstraktion circolavano. Già alla fine dell'Ottocento, poi, due studiosi anch'essi tedeschi, Fiedler e Hildebrandt, avevano elaborato la teoria della pura visibilità, secondo cui l'arte non si limita a interpretare gli elementi della natura, ma crea forme completamente nuove.
Se fosse stato per teorici e studiosi, comunque, il concetto di astratto sarebbe rimasto chiuso nelle aule universitarie. Invece l'acquerello di Kandinsky (un foglio di carta alto poco più di cinquanta centimetri, tutto macchie e grumi di colore, che a prima vista sembra lo scarabocchio di un bambino ma racchiude un'energia e un senso dello spazio che solo un artista può avere) esercita un influsso incalcolabile sull'intero secolo. Crea una poetica, una filosofia, quasi una fede.
Oggi se si sente qualcuno definire astratto o figurativo un quadro si può star certi che ha almeno quarant'anni. È una distinzione che ai giovani non interessa più, eppure fino a qualche decennio fa suscitava contrapposizioni, scontri, lacerazioni. E pensare che Kandinsky, invece, era tutt'altro che dogmatico e ammetteva benissimo l'immagine, purché non naturalistica, accanto alla pittura di sole linee e colori di cui era il padre. Quello che gli stava a cuore, e l'aveva portato ad allontanarsi dall'arte imitativa, era la ricerca della spiritualità. «Lo spirituale nell'arte» si intitola appunto il suo testo più famoso: un libretto che scrive nel 1909 e per tre anni gli viene sistematicamente rifiutato, finché l'amico Franz Marc riesce a trovargli un editore. L'artista, sostiene Kandinsky, non deve dipingere la materia, ma l'essenza, l'interiorità, l'anima delle cose. Per esprimere il movimento, per esempio, non deve dipingere un cavallo (o magari una macchina in corsa, come negli stessi anni facevano i futuristi): basta un triangolo, che già con la sua forma acuta e le sue linee oblique suggerisce il dinamismo. Analogamente accade coi colori: il blu dà un senso di quiete, il viola di malattia. Anzi l'effetto è ancora più intenso, perché l'armonia cromatica giunge subito all'anima.
Spiritualità, interiorità, colore: ma Kandinsky è il primo dei moderni o l'ultimo dei bizantini? Forse entrambe le cose. Giunto nel 1866, a trent'anni, a Monaco di Baviera, dove nel 1911-12 fonda con Franz Marc il gruppo del «Cavaliere Azzurro», punto di partenza dell'astrattismo europeo, Kandinsky era nato a Mosca. E nella sua formazione devono aver contato non solo l'impressionismo di Monet e l'esperienza delle coloratissime izbe dei contadini, come lui stesso ha raccontato, ma anche la visione delle icone millenarie. Dove il colore è sempre stato un'espressione dell'anima.

Francesca Bonazzoli, Usò l'Italia fascista come ponte per farsi riabilitare in Germania
Sospettato di bolscevismo, puntò sui buoni uffici dei futuristi
"Corriere della Sera",  11 ottobre 2012

«Qual è il Paese che può rivendicare Kandinsky?» si chiedeva la moglie del pittore, Nina, nell'autobiografia pubblicata nel 1976. La Russia, la Germania o la Francia dove Kandinsky è morto, da cittadino francese e sepolto al cimitero di Neuilly? Nemmeno Nina aveva una risposta, ma certo è che per un periodo, quello fascista, anche l'Italia entrò fra le opzioni di Kandinsky.
La prima volta che l'artista russo mise piede in Italia fu con i genitori, nel 1869. Aveva solo tre anni e di quei giorni riportò il ricordo angosciante di «una foresta inestricabile di colonne fittissime, quella terribile foresta della cattedrale di San Pietro da cui mi pare che invano la mia governante e io cercassimo a lungo l'uscita». E come se non bastasse, il colore che più gli rimase impresso fu il nero: quello di una carrozza nera su un ponte e di una gondola presa di notte sull'acqua nera. Esperienze di puro terrore.
Anni dopo Kandinsky si riconciliò attraverso vacanze soleggiate a Forte dei Marmi, Rimini, Rapallo, Palermo, Verona, Pisa («Là un tempo hanno costruito degli uomini veri!»). Ma soprattutto Kandinsky pensò all'Italia come al Paese-ponte attraverso cui, grazie ai buoni uffici del fascismo, tornare nella Germania nazista da cui si era dovuto allontanare.
La storia è complicata e racconta un'Europa ben più lacerata di quella di oggi, colpita in confronto dalla leggera febbre dello spread. Come molti altri europei, infatti, dalla Rivoluzione russa fino alla fine della seconda guerra mondiale Kandinsky dovette passare da una nazione all'altra inseguito da fame, guerre, persecuzioni razziali, pregiudizi religiosi e politici.
Quando dunque Kandinsky tornò in Italia nel 1936, aveva già lasciato la sua Mosca, dove c'era stata la Rivoluzione ma anche la Germania dove aveva studiato e dove era tornato a vivere nel 1921. Era diventato cittadino tedesco ma il Bauhaus, dove insegnava, era stato chiuso dai nazionalsocialisti e la sua arte considerata degenerata. Per di più, su di lui gravavano sospetti di bolscevismo, per il solo fatto che era di origini russe. Nel 1933 si era quindi dovuto trasferire in Francia dove però il trattato di mutua assistenza franco-sovietica del 1935 minacciava di nuovo la sua sicurezza essendo egli ancora cittadino tedesco, seppure in fuga. Le sue idee antimarxiste dunque non lo salvarono in Germania ma nemmeno lo aiutarono in Francia dove le avanguardie artistiche stavano a sinistra e i rapporti intrattenuti nella casa di Parigi con Marinetti e i futuristi lo rendevano sospetto.
Ecco dunque che per l'errante Kandinsky il consenso nell'Italia fascista poteva diventare il ponte per una riabilitazione agli occhi della Germania dove, fino al 1939, l'artista sperò di tornare. In una lettera, scritta a un amico a Berlino nel 1933, si illudeva così: «Naturalmente per noi, artisti "moderni", è molto spiacevole che il nuovo governo non capisca la nuova arte. In Italia pare che la situazione sia molto diversa! La nuova architettura e la nuova arte (futuristi italiani) vi sono riconosciute come arte fascista ma forse i nazisti si renderanno conto che gli italiani si comportano nel modo giusto».
Scottato dall'esperienza moscovita, Kandinsky temeva l'avvento al potere del partito comunista sia in Francia che in Germania e si ostinava a pensare che le posizioni naziste contro il Bauhaus, l'astrattismo e l'arte degenerata fossero un semplice incidente di percorso, recuperabile attraverso il successo di cui godeva in Italia, dove veniva riconosciuto come «il più celebre pittore astratto di tutti i paesi». Il suo avvicinamento all'Italia, ignorata fino al 1930, fu quindi strumentale al bisogno di rifarsi un'immagine.
Non a caso, quando i fratelli Ghiringhelli gli organizzarono una personale alla galleria del Milione di Milano, nel marzo del 1934, non si impegnò particolarmente e inviò solo opere su carta preoccupandosi soprattutto che la galleria fosse «di assoluta e tipica modernità fascista».
Ma non andò come Kandinsky aveva sperato e nemmeno il sollecitato aiuto dell'amico Marinetti riuscì a riabilitarlo agli occhi dei tedeschi. Ci volle il crollo del nazismo.
In Italia, invece, nonostante a quel punto poco gli importasse, Kandinsky continuò a godere di un grande successo anche dopo il fascismo: nel 1950 Enrico Prampolini lo definì «il Giotto del XX secolo» perché lo vedeva come l'artefice del superamento della tradizione figurativa occidentale. Nel 1966 Piero Dorazio lo acclamò come «il salvatore dalla soffocante influenza di Picasso e della sua mitologia mediterranea» e anche Giulio Carlo Argan vide in lui il liberatore dall'elitaria estetica ellenistico-figurativa. 


Claudio Strinati, Wassily Kandinsky. Inventare l’astrazione per dare voce all’anima
"La Repubblica", 11 ottobre 2012

Di Wassily Kandinsky sono chiari molti aspetti ma la mostra che si tiene ora a Pisa permette di verificare in concreto l’attendibilità di quanto sembrerebbe ormai entrato nella coscienza comune di coloro che sono attenti alle cose dell’arte. Kandinsky da un lato fu un russo completamente calato all’interno del clima culturale e spirituale diffuso nella sua terra verso la fine dell’Ottocento (era nato nel 1866 e raggiunse la prima maturazione nel corso del nono decennio) e dall’altro è subito coinvolto con l’ambiente tedesco che lo indirizza verso il culto del Simbolismo e dello Jugendstil, spingendolo ad approfondire la componente spirituale dell’arte sottratta a un confronto diretto con il peso della realtà ma all’opposto orientata sulla scandaglio del profondo, della memoria, dell’introspezione.
Questa sorta di doppia radice, russa e tedesca, sarà determinante per tutta la parabola del grande artista destinato a restare sempre un po’ apolide, persino mal sopportato nella sua stessa patria. La mostra, curata da Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo in collaborazione con Claudia Beltramo Ceppi raccoglie una cinquantina di opere provenienti da San Pietroburgo e da altri musei russi e europei, le affianca quelle dei compagni di strada tedeschi (da Gabriele Munter a Alexej Jawlensky, da Marianne Werefkin a Arnold Schönberg), e apre un orizzonte nuovo sulle possibili interpretazioni della questione decisiva dell’arte moderna: l’astrazione.
Kandinsky può esserne considerato il fondatore ma forse non il padre, perché l’astrazione non fu mai per lui un fine dottrinalmente perentorio, ma un metodo per esplorare territori sconosciuti dell’arte, presenti però alla coscienza umana fin dalle origini.
Quando Kandinsky scrisse Lo Spirituale nell’Arte questo punto era in effetti già latente. Ma l’esatta comprensione del suo pensiero stentò a emergere, anzi soltanto adesso la ricostruzione della storia dell’arte di quell’epoca si sta liberando da inveterati pregiudizi. La genesi de Lo Spirituale nell’Arte è
emblematica. Scrisse il testo in tedesco nel 1909 sotto l’urgenza di dare una sistemazione teorica a quel che stava facendo tra mille contraddizioni e ripensamenti. Poi l’anno dopo lo riscrisse in russo e già questo solo fatto la dice lunga sul suo animo tormentato perché la lingua russa di Kandinsky, come ci viene ben spiegato nel catalogo, era già di per sé una lingua scritta in modo difficile e altezzoso.
In veste di scrittore il maestro si espresse nella sua lingua madre in modo sempre forbito e sovraccarico di una terminologia ad alta densità filosofica e teosofica. Era una lingua destinata a una cerchia di iniziati anche se pretendeva di lanciare un messaggio generoso e ardente a tutta l’umanità, mentre la stesura tedesca accentuava l’argomentazione tecnica. Il libro venne completato e uscì tra il 1911 e il 1912. Kandinsky vi parla, con enfasi, dell’avvento di un’epoca di eletta spiritualità e del principio della necessità interiore che l’artista deve assecondare e tradurre nel concreto dell’opera realizzata. La parola chiave è “anima”.
È l’anima che si deve vedere nell’opera, ma la rappresentazione dell’anima è di necessità astratta perché la verità della dimensione spirituale non ammette figura ma pretende “forma”. In questa aporia misteriosa sembra risiedere l’esigenza perentoria del cambiamento in Kandinsky.
Ma egli in realtà restava libero dai suoi stessi principi senza averne mai fatto una sorta di dogma. Quante sollecitazioni aveva dovuto coordinare lungo il cammino per giungere alla conclusione di potersi presentare come teorico, docente, educatore del popolo, poeta segreto.
All’inizio degli anni Ottanta, giovanissimo, aveva viaggiato per la Russia settentrionale ed era rimasto incantato da questo mondo che sembrava vivere ancora nella dimensione della favola, nell’izba contadina gremita di oggetti, sfavillante di colori, calda e accogliente come un grembo materno. Così racconta il suo ingresso nell’izba di Vologda: «Mi fermai sulla soglia, mi sembrava di entrare nel colore. Avanzai all’interno di un quadro». Quest’esperienza fu fondativa per lui: per tutta la vita cercò la potenza del colore e della forma. Ed è bello che la mostra di Pisa dedichi una sezione alle radici visive dell’opera del maestro russo con oggetti appartenenti alla tradizione dello sciamanesimo raccolti negli stessi anni in cui Kandinsky li appuntava sui suoi taccuini, e da coloratissimi oggetti della tradizione folclorica. Ma ci volle del tempo prima che incontrasse la sua strada. La sua prima formazione era avvenuta in campo giuridico presso la facoltà di Legge di Mosca. Qui aveva lavorato a lungo, appassionandosi alla disciplina e dedicandosi particolarmente a speculazioni teoretiche di filosofia del diritto. Aveva avuto chiara cognizione della dialettica tra diritto romano antico e diritto russo. È proprio nel diritto che aveva individuato una peculiarità russa, rivolta alla cognizione dell’anima. Eccone la interessante chiave interpretativa: il diritto romano insegna a giudicare il fatto, il diritto russo insegna a giudicare l’animo umano, evidenziandone le motivazioni e i relativi comportamenti. Scrive Kandinsky stesso che nel diritto prediligeva la dimensione dell’astrazione concettuale piuttosto che quella della concreta applicazione della norma, anche rispetto alle grandi questioni sociali che di lì a poco avrebbero portato alla rivoluzione e alla vittoria dei principi del materialismo storico.
Ma il materialismo storico era proprio all’opposto di quella via dell’anima che l’artista riteneva determinante e esclusiva per attingere la verità dell’arte. Credeva non a Marx ma al mistico duecentesco Gioacchino da Fiore che aveva profetizzato (e anche Dante lo seguì) i tre regni dell’umanità, sotto il dominio del Padre (il tempo della legge), del Figlio (il tempo della redenzione), dello Spirito Santo (il tempo della rivelazione).
Nasceva in quel momento la convinzione in Kandinsky che la vera rappresentazione dell’anima umana consistesse nella capacità di fissare in immagine quella “risonanza interiore” che genera il suono da un lato (e si estrinseca nella musica) e il colore dall’altro (e si estrinseca nella pittura) concretizzandosi attraverso la combinazione degli elementi essenziali del sapere, che per antonomasia è quello visivo: il punto, la linea, la superficie. Ecco il racconto figurativo dell’anima. Un’utopia, che non gli impedì di continuare contestualmente a rappresentare le favole antiche della gente della sua terra, vista in una lontananza siderale ma captata in uno spazio che ha perso peso e consistenza, per poi ritrasformarsi nell’altro da sé della pura astrazione.

Gregorio Botta, Le influenze del circolo blavatskiano sulla rivoluzione astratta
"La Repubblica", 11 ottobre 2012

C’è un errore all’origine dell’arte astratta, secondo la storia (o la leggenda?) che lo stesso Kandinsky ha raccontato: un giorno, mentre stava dipingendo, lasciò lo studio per una passeggiata. Al suo rientro, guardò stupito la tela sul cavalletto: non la riconosceva più, ma fu sedotto dalla sua forza e dalla sua potenza. Poi capì: il suo quadro era stato rovesciato dalla donna di servizio venuta a fare le pulizie. Quell’inversione fece compiere all’arte del Novecento l’ultimo passo che ancora mancava: liberare completamente il colore e la forma dall’obbligo di descrivere anche lontanamente una realtà visibile.
Probabilmente Kandinsky sarebbe arrivato lo stesso a varcare la soglia dell’astrazione. Il salto era nell’aria: e molti artisti percepivano il vento del cambiamento prossimo venturo. Un ruolo, nella rivoluzione estetica dei primi del secolo, l’ha certamente avuto la Società Teosofica di Madame Blavatsky. È noto che tutti gli artisti che hanno avuto a che fare con l’astrazione, Malevic, Mondrian, Kandinsky entrarono in contatto con le sue teorie e con quelle dell’eretico Rudolf Steiner, e ne furono in qualche modo contagiati. (Non Paul Klee, che invece nei suoi diari esprime una certa diffidenza per il movimento). Il titolo del manifesto di Kandinsky Lo Spirituale nell’arte è una chiara testimonianza di quelle influenze. Ma è invece meno conosciuta una strana coincidenza: quella di un piccolo e curioso libretto pubblicato dal circolo blavatskiano qualche anno prima delle Improvvisazioni
astratte. Si intitolava Le Forme-Pensiero, e gli autori erano Charles Webster Leadbeater e Annie Besant: spiegavano come pensieri e sentimenti fossero energie che assumevano nello spazio pattern e colori precisi: peccato che solo i chiaroveggenti fossero in grado di vederle. Ne disegnarono il catalogo. Qualche esempio? Un triangolo acutissimo rosso è un segno d’ira, un ovale rosato un pensiero d’amore, un sole (scontato, no?) è amore irradiante, un cerchio circondato da un alone azzurro è il sembiante di un pensiero d’aiuto, mentre una nuvola con una coda di ami uncinati rappresenta l’avidità. E via così. Anche la gamma dei colori è stata interpretata: il blu lapislazzuli significa “alta spiritualità”, il verde smeraldo simpatia, il giallo ocra un “forte intelletto”, il grigio scuro, naturalmente, depressione, il verde marcio inganno.
Tutto questo può fare anche sorridere, le associazioni tra forme e sentimenti sembrano fin troppo semplici e infantili. Ma i chiaroveggenti andarono a “vedere” – se così si può dire – le forme prodotte dall’esecuzione di musiche di Mendelssohn, Gounod e Wagner. E qui la somiglianza con le opere che più tardi avrebbe dipinto Kandinsky è impressionante. Linee guizzanti, nuvole di colore accesi, verdi intensi e rossi squillanti, e nessun riferimento alla realtà.
Il maestro russo scriveva che le sue opere non nascevano dall’arbitrio. “Tutto ciò che è necessario è nascosto. Ciò che è nascosto è alla base dell’opera, dell’opera viva”. E per questo sentì il bisogno di decifrare il codice delle forme che usava. In Punto, linea, superficie l’artista creò il catalogo che spiegava il movimento, il calore, l’effetto, in una parola il senso di linee rette e curve, di triangoli e cerchi, e dei colori. Un vero e proprio dizionario delle forme astratte: simile, in fondo, a quello dei teosofi. Sarebbe bello sapere se la sua biblioteca ospitò anche quel libricino.

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