domenica 7 ottobre 2012

Insegnare



Paolo Di Stefano, "Corriere della Sera", 7 ottobre 2012

«Nonostante tutto, dopo 4 o 5 ore passate con degli adolescenti, sei stanco», dice Gianfranco Giovannone in un lunedì pomeriggio di fine settembre. Dopo aver studiato lingue a Pisa e aver insegnato in tutti gli ordini di scuola, escluse le materne, a sessant’anni suonati può permettersi di parlare della scuola senza l’abnegazione cieca del sentimentalismo deamicisiano e senza le cupezze del risentimento e della nostalgia. Del resto, non c’era né cuore-in-mano né rancore neppure nel libro che ha pubblicato qualche anno fa (Perché non sarò mai un insegnante, Longanesi), in cui attraverso le parole degli studenti veniva illustrato, con abbagliante sincerità, il declino della professione docente. Erano i ragazzi, appunto, nei loro componimenti, i primi a considerare i prof degli alieni, dei corpi estranei al mondo e alla realtà, ma soprattutto ben lontani dalla formulamagica «denaro, potere, immagine», in cui generalmente si riassume il prestigio sociale. Insomma, la classe degli insegnanti, che ha il compito importantissimo di formare i cittadini del futuro, appare proprio alle giovani generazioni come un manipolo di «sfigati», descritti in un’ampia gamma di coloriture che va dall’ironia alla vera e propria ostilità, dal compatimento al disprezzo. Più o meno la stessa considerazione di cui il docente gode all’interno della società.
Dunque? Al professor Giovannone, che insegna inglese al liceo scientifico Ulisse Dini di Pisa, è sposato con una maestra elementare e ha un figlio universitario, mancano quattro anni per raggiungere la pensione, ma non ne fa un dramma, anzi: «Grazie alla riforma dei tecnici dovrò continuare a lavorare, ma non mi interessa: sono contento, è un lavoro che mi piace e che ritengo importante per la società». In pochi, però, lo riconoscono come tale. C’è un ampio repertorio letterario e cinematografico che sta a dimostrare il contrario. Ultimo venne il film di Giuseppe Piccioni Il rosso e il blu (tratto dall’omonimo libro di Marco Lodoli), che non si sottrae, sia pure con mano leggera, al cliché dell’ambiente un po’ bozzettistico e tragicomico, pieno di insegnanti frustrati e/o idealisti e di allievi depressi e/o esagitati, strafottenti e sostanzialmente ignoranti. «Non mi piace, in genere, la maniera pittoresca, sdolcinata e pezzente di raccontare la vita scolastica. C’è però una cosa che salverei nel film: la figura dell’anziano professor Fiorito, interpretato da Roberto Herlitzka, colto, tradizionalista, superbo, nevrastenico. Alla fine non tutto il bene sta dalla parte del supplente Scamarcio, animato dall’ideale di portare sulla retta via i suoi allievi. È interessante che anche il vecchio prof abbia il riconoscimento degli studenti dopo la sua ultima bellissima lezione su classicismo e romanticismo. Per il resto mi sembrano tante figurine svampite che nella scuola reale non esistono». Il confronto può essere fatto con un film canadese, Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau, dove è in gioco la questione scottante della permeabilità della scuola alla realtà (anche tragica).
La letteratura ha contribuito all’immagine della scuola italiana come carrozzone folcloristico in cui gli insegnanti si barcamenano come possono, tra il menefreghismo e l’incomprensione: «Ci sono anche racconti molto divertenti, come quelli di Domenico Starnone, ma rimane sempre quel vezzo di restituire un’immagine triste degli insegnanti, come individui patetici che si arrabattano alle prese con adolescenti odiosetti, antipatici e problematici. Chissà perché i docenti vengono quasi sempre trattati da personaggi ridicoli e non da intellettuali che hanno un profilo davvero professionale e che rendono un servizio egregio alla società». È contro la rappresentazione apocalittica che Giovannone, nel suo libro, aveva puntato il dito: la scuola da buttare, il cadavere, la miseria, la catastrofe, il disastro, lo sfascio del sistema scuola eccetera. «L’errore è quello di non distinguere. In Italia abbiamo scuole pubbliche generalmente di buon livello e anche di eccellenza, le materne, le elementari, il liceo classico e lo scientifico. Basterebbe leggere con attenzione i dati Ocse Pisa». Eppure si parla un giorno sì e l’altro pure di riforme: «Non serve una megariforma globale e generica, serve invece puntare l’attenzione sul vero disastro, che è l’istruzione professionale (e in parte quella tecnica), un ghetto, un tunnel quasi senza speranza per gli studenti e difficile per gli insegnanti, che devono andare a lavorare con l’elmetto. Invece la Moratti e la Gelmini hanno affrontato una ristrutturazione generale di cui non c’era alcun bisogno».
Così però il pericolo è di passare dal pessimismo radicale a una specie di trionfalismo che rischia di essere altrettanto improduttivo: sarebbe sbagliato sostenere che la malattia della scuola italiana è limitata al corpo delle professionali. «Certo, ci sono altri problemi seri. Esiste un enorme divario tra Sud e Nord: quando lo disse la Gelmini, certi intellettuali tirarono fuori Sciascia, ma il ministro aveva ragione. Il Mezzogiorno è indietro di vent’anni rispetto al Centro e al Nord, se non si parte anche lì dalle scuole materne efficienti e dal tempo pieno non si raggiungeranno mai certi livelli di qualità che si riscontrano nel resto d’Italia». Tutto qua? No, ovviamente. «La piaga più seria è quella della incapacità della società italiana, per non dire della politica, di promuovere la mobilità. Io insegno in un prestigioso liceo di Pisa, i cui studenti sono in gran parte figli di professionisti, mentre i figli del sottoproletariato frequentano per lo più le professionali: da noi non è stato fatto niente per promuovere davvero il merito e per ridurre le barriere sociali. In Finlandia i migliori insegnanti vengono destinati ai quartieri più degradati per innalzare il livello di istruzione nelle classi meno agiate. Da noi?».
Da noi già parlare di merito e di premio ai migliori è difficile: «Non sono affatto contrario a valutare il merito dei docenti, purché non diventi un motivo buono per dividere tra pochissimi superbravi e la massa degli asini, com’era nella proposta Berlinguer. Vedo colleghi stanchi e demotivati, ma anche tanti professionisti che lavorano bene: gli insegnanti da barzelletta sono pochi ed emarginati». Una difesa della categoria? «Guardi, sono vent’anni che si parla del merito con enfasi anche eccessiva. Le esperienze in Inghilterra e nei Paesi scandinavi si sono ridotte al teach to test, insegnare a fare bene i test: ora ci stanno ripensando. Se il metro di giudizio sono i test non ci siamo. Il fatto è che sul merito non è mai arrivata una proposta accettabile». Allora come si misura il merito? «Le opinioni degli studenti e dei genitori sono valutazioni empiriche, quel che conta è il cosiddetto progresso dei ragazzi. Ma è un terreno molto spinoso».
Uscendo dalle teorie e entrando nella quotidianità, spinosa è anche la questione salariale, se si pensa che a sessant’anni il professor Giovannone non arriva a duemila euro mensili: «Credo di meritare molto di più, come lo meriterebbe la maggior parte dei miei colleghi. Non dico il doppio, ma 3.000-3.500 euro, una cifra appena adeguata al ruolo». Tullio De Mauro da ministro pose con forza la questione retribuzioni, giudicando «infame» il trattamento che la nostra Repubblica dedica alla categoria degli insegnanti, non paragonabile a quello degli altri Paesi europei. «Non solo. L’aspetto più incredibile è la totale impermeabilità dei miei colleghi sulla questione salariale: gran parte di loro, per una tradizione deamicisiana o cattolica, ritiene che insegnare sia una missione molto più vicina al volontariato che non a un’attività professionale e dunque si accontenta. L’abnegazione volontaristica delle “lodevoli eccezioni” finisce per perpetuare l’aura missionaria e l’enfasi vocazionale, grazie alle quali oggi l’insegnamento viene percepito dai ragazzi come una professione finta». Negli anni 70 e 80, spiegava Giovannone nel suo libro, cioè quando lo sciopero aveva ancora un valore, le percentuali di adesione erano penose: «Probabilmente allora la convinzione di appartenere alla borghesia — la classe di provenienza della maggior parte degli insegnanti — e il fatto che molte colleghe erano sposate a chirurghi, avvocati, dirigenti, funzionari di banca, gente insomma con un reddito serio, faceva ritenere lo sciopero una forma di prossimità ai blue-collars, una proletarizzazione che a livello economico era già in fase avanzata, ma che ideologicamente veniva pateticamente rifiutata». Più difficile, continuava, spiegare l’attuale rassegnazione. Si è perpetuato così quel tacito accordo che in gergo viene definito «teoria dello scambio politico»: «L’idea generale, diffusa soprattutto a sinistra e nei sindacati, è: lavorate pure poco, in cambio però accontentatevi di uno stipendio da fame».
Il rimprovero dell’opinione pubblica è proprio questo: gli insegnanti in Italia lavorano meno che all’estero. Ma sarà poi vero? «Fesserie che sono state interiorizzate e hanno prodotto nella nostra classe insegnante una sorta di complesso di inferiorità. In realtà l’orario di 18 ore più una di ricevimento è affine in tutto il mondo occidentale. E a chi sostiene che si tratta comunque di un orario ridicolo rispetto a quello di altri lavoratori, bisogna ricordare il lavoro a casa, tra preparazione e correzioni, che sono la parte più odiosa e pesante: dopo i primi due-tre-quattro compiti, comincia l’effetto di ripetitività. Per la correzione a me servono tutte le domeniche mattina dalle 7 alle 2 e almeno altri due pomeriggi interi in settimana». Se confrontate con quelle del suo libro, le parole di Giovannone sembrano oggi più disincantate, forse più deluse. Colpa anche degli studenti, sempre più distratti e strafottenti come dicono? «No, devo confessarle che non ho mai avuto problemi di disciplina o di mancanza di rispetto. Le attuali generazioni di liceali, al di là dei tatuaggi e dei piercing, sono molto più conformiste di quel che eravamo noi: non ci sono grandi difficoltà di relazione. Si dice che le ragazze vogliano fare le veline, le modelle, le troniste? La cosa non mi scandalizzerebbe, ma in tutti questi anni ho avuto una sola allieva che è andata a fare l’Accademia di ballo a Roma. Probabilmente nelle scuole tecniche accade più spesso». Saranno forse cambiate le famiglie? «Certo, quando ci sono gli scrutini, davanti alla presidenza si forma la fila dei genitori che protestano perché i loro figli meritavano di più… Le famiglie sono diventate ossessive e iperprotettive, si sa». Non abbastanza da far passare la voglia di insegnare a chi ce l’ha. «Certo che no. Nel libro manifestavo la speranza che almeno una parte della categoria potesse rendersi consapevole della propria dignità professionale, proponendosi come interlocutori seri dell’accademia, della politica e dei media per migliorare il proprio status e la propria immagine, e per discutere sul destino e sugli orientamenti culturali della società. Ma se allora si poteva ancora sperare di rivendicare un ruolo simile nella società, si poteva immaginare una riscossa e uno scatto d’orgoglio, oggi la situazione è mutata e quelle speranze appaiono spaventosamente grottesche: gli insegnanti sono diventati — oggettivamente e a detta di tutti — i nuovi poveri della società, sempre più marginali, con prospettive ancora più terrificanti. Oggi ci troviamo molto al di là del peggio e quell’idea sarebbe un wishful thinking: non è più tempo di illusioni e va già bene se riusciamo a mantenere lo status di nuovi poveri».

Paolo Di Stefano

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