giovedì 20 settembre 2012

La verità è un falso


Nathan Jurgenson, "Corriere della Sera", 16 settembre 2012

Il profilo Facebook è un’esibizione veritiera di noi o è un groviglio di bugie? In realtà è entrambe le cose. Da un lato, Facebook e gli altri social media sono descritti come fonti di verità. Il fondatore e amministratore delegato di Facebook Mark Zuckerberg dice che Facebook «è la storia della nostra vita» e lo specchio di «chi siamo realmente». Le centinaia di milioni di utenti globali paiono impegnati a esibire se stessi nel modo più completo: entrano, discutono, twittano e fotografano tutto della loro vita, dai momenti significativi alle banali immagini di un pranzo. Siamo poi preoccupati di tutte quelle piccole verità che le aziende raccolgono su di noi, un Grande Fratello apparentemente più benevolo, ma in realtà più pericoloso, che ci sorveglia, registra i nostri pensieri, monitora abitudini, movimenti e tutto quel che può essere inserito nei suoi misteriosi database. C’è chi dice che siamo sulla soglia di una nuova era della Verità.

Il «New York Times» propone spesso riflessioni sul potere della Verità. In un articolo del 2011 si sosteneva che «il Web fa cadere la nostra maschera» e produce la «morte dell’anonimato». Nel 2010 era uscito un articolo dal titolo «The Web Means the End of Forgetting» («Il web significa la fine della possibilità di dimenticare»). Zygmunt Bauman scriveva nel 2011 sul «Guardian» che stiamo assistendo alla «fine dell’anonimato». Un altro articolo del «Guardian» di quell’anno diceva che «grazie alla tecnologia digitale, la capacità di dimenticare della società è stata sospesa ed è stata sostituita da una memoria perfetta».
Dall’altro lato sentiamo però esprimere anche un dubbio di diversa natura: ciò che di noi e della nostra vita pubblichiamo online non è poi così vero, i profili dei social media sono troppo artefatti, troppo perfetti, e forse sono poco più di una idealizzazione che usiamo come pallido sostituto di un vero rapporto umano, come ha sostenuto la ricercatrice Sherry Turkle nel suo recente libro, Insieme ma soli(Codice). Abbiamo tutti notato che le foto nei profili sono sempre un po’ migliori della realtà e i tweet più spiritosi di quanto noi siamo, che le feste sembrano più divertenti, i viaggi troppo esotici, gli animali domestici troppo adorabili, i cibi troppo appetitosi. Le vite documentate in questo modo sembrano spesso assai lontane dalla verità.
Allora come stanno le cose? La crescita dei social media comporta un ampliamento della verità o la creazione di una grande finzione? La verità dei socialmedia va sempre considerata parzialmente illusoria. Il filosofo Georges Bataille ci ha insegnato che ogni verità contiene un momento di non-verità, che chiamava «non-conoscenza». Ogni volta che impariamo qualcosa, ci rendiamo anche conto dell’esistenza di altre cose che non conosciamo. La relatività di Einstein ci ha insegnato molto, ma ha anche suscitato molti interrogativi che prima non si ponevano. Ogni nuova verità porta nuove incertezze: vero e falso non sono in conflitto, ma hanno bisogno l’uno dell’altro, sono sempre appaiati. Sul web, vero e falso sono simili alla dicotomia piacere/dolore di Freud: senza l’uno non si può avere l’altro.
Penso che si possa risolvere il dilemma vedendo Facebook come una sorta di danza dei ventagli, secondo le linee seguite dal sociologo Erving Goffman per descrivere, più di mezzo secolo prima dell’ascesa dei social media, la rappresentazione dell’identità personale. Nella danza dei ventagli di Facebook, riveliamo creativamente e artisticamente parti di noi stessi, facendo solo intravvedere la nuda verità e seducendo il nostro pubblico con un occultamento parziale. I grandi ventagli o le piume che in parte nascondono il corpo della ballerina fanno balenare la promessa di un’esposizione completa, che non sarebbe però seducente quanto quella parziale. Jean Baudrillard, un altro filosofo francese, capì che tenere qualcosa nascosto è più eccitante che esporre oscenamente tutto.
La danza dei ventagli di Facebook non è quindi pura oscenità — non tutto viene rivelato — ma non è neppure una fiera della menzogna. È piuttosto un gioco di seduzione dove la verità è in parte occultata. Gli articoli che citavamo, in cui si parla di fine della privacy e dell’anonimato, non dicono il vero. Dimenticano quanti mezzi abbiamo per nasconderci. Quel che pubblichiamo online non dovrebbe quasi mai essere considerato verità assoluta. Su Facebook, effettivamente, ci esponiamo, ma teniamo nascoste alcune parti di noi. Nella sequenza di aggiornamenti del profilo, che possono essere molto dettagliati, dovremmo anche prendere in considerazione l’intervallo che li separa. Che cosa non abbiamo fotografato mentre eravamo in vacanza? Che cosa non abbiamo condiviso? Quando pubblichiamo dei contenuti su Facebook, entriamo in questo gioco di seduzione, rivelando qualcosa e nascondendo il resto. Lo schermo rivela solo una piccola parte della storia.
Chi sostiene che Facebook è puramente «virtuale», «falso», mera finzione, si sbaglia. Teorici dell’identità come Erving Goffman e Judith Butler sostengono da tempo che recitiamo sempre; come attori su un palcoscenico leggiamo i copioni che la società ci assegna, sia quando siamo online che quando non lo siamo. Sarebbe però sbagliato considerare il profilo Facebook come una semplice messa in scena, dato che quel che accade online è molto simile a quel che avviene anche offline. Gli utenti offrono una miscela di vero e di falso, esponendo qualcosa di sé e nascondendo il resto.
In queste incertezze risiede il fascino dei social media. Se Facebook presentasse davvero tutta la verità su di noi, o se fosse solo un coacervo di bugie, non continuerebbero a usarlo sempre più persone. Al contrario, l’attrattiva dei social media sta nell’interazione creativa e seducente tra rivelare e nascondere. Su Facebook eseguiamo la danza dei ventagli, in cui si offrono stuzzicanti momenti di esibizione, ma si nascondono sempre i punti cruciali, e si è così spinti a tornare per vedere di più.
(Traduzione di Maria Sepa)

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