domenica 10 giugno 2012

Alan Turing

Alan Turing



Alan Turing ha fornito contributi fondamentali allo sviluppo di diverse discipline: matematica, logica, crittografia, morfogenesi, intelligenza artificiale, computer science. Il suo pensiero ha profondamente segnato la storia del nostro secolo: come criptoanalista ha reso possibile la vittoria su Hitler da parte delle forze alleate, decodificando il codice della macchina Enigma usata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale; come matematico ha sviluppato le teorie alla base dell'attuale informatica e dell'intelligenza artificiale, da cui la genesi dei primi calcolatori elettronici e dell'attuale computer. 
“Nel 1943, mentre lavorava a progetti di crittografia di interesse militare per la Government Code and Cypher School a Bletchley Park, Alan Turing confessava al collaboratore Donald Bayley la sua ambizione di voler "costruire un cervello". La storia successiva del sogno di Turing  […] è negli scritti elaborati in rapida successione dal 1945 al 1950”. 
Condannato per omosessualità nel 1952 e costretto a subire una devastante cura ormonale, morì suicida due anni più tardi, mangiando una mela da lui stesso avvelenata con cianuro di potassio. 
Continua la lettura:

PER SAPERNE DI PIU’: 

Il sito ufficiale dedicato alle celebrazioni del centenario:

Dossier Turing:

Il matematico che sconfisse Hitler

L’archivio di Alan Turing: http://www.turingarchive.org/
Le invenzioni di Turing:

Il fondamentale testo di T, Computing Machinery and Intelligence, in traduzione italiana:
http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/testi/turing.htm

La storia della sua vita: 
Andrew Hodges, Storia di un enigma. Vita di Alan Turing (1912-1954), Bollati Boringhieri, 2003
http://www.tecalibri.info/H/HODGES-A_storia.htm#p000 (per leggere alcune pagine della biografia)

Un documentario RAI su Alan Turing:

Il film con Turing protagonista, Enigma, del 2001:

La storia del computer attraverso i lavori di due grandi protagonisti, Gödel e Turing. La lezione tenuta da Piergiorgio Odifreddi, “La Repubblica”, Vol. 15, Beautiful Minds:





Breve ritratto di Alan Turingdi Emmanuel Carrère


L’8 giugno 1954, la domestica di Alan Turing scoprì il corpo del matematico riverso sul letto nella piccola casa della periferia di Manchester in cui viveva. L’inchiesta fu breve: si era avvelenato addentando una mela intinta nel cianuro (Nota: In omaggio ad Alan Turing, e alla sua opera, la società informatica Apple ha adottato il simbolo della mela morsa. Fine nota) Niente lasciava presagire questo suicidio. Turing era certamente un uomo ansioso e solitario; due anni prima aveva subìto una prova fisica e morale molto crudele e, stando alle poche persone che ne avevano una vaga idea, cercava di rinascere attraverso il suo lavoro scientifico. Ma alla vigilia della sua morte aveva prenotato il computer dell’Università di Manchester, uno degli unici due esemplari di quella specie esistenti al mondo che Turing aveva contribuito a realizzare e con cui passava due notti la settimana; aveva corso diverse ore per allenarsi alla mezza maratona cui il suo club avrebbe preso parte la settimana successiva, comperato due ingressi a teatro per sé e per un amico e lavato i piatti del suo ultimo pasto.
Aveva quarantadue anni. Era un omone rude, trasandato, che indossava giacche di tweed bucate. La gente ci vedeva la perfetta incarnazione dello scienziato eccentrico, che ha la testa tra nuvole di equazioni e pulisce la lavagna con un lembo della camicia – immagine convenzionale che lui senz’altro alimentava, e che gli serviva da status sociale. Aveva fama di essere un matematico di talento, ma da tempo non produceva nulla che giustificasse tale reputazione. Metteva raramente piede nel suo ufficetto dell’università e si teneva a distanza dall’ambiente accademico – come da qualsiasi altro ambiente, del resto. Alle prime luci dell’alba, quando lasciava il suo computermastodonte, altri ricercatori del laboratorio gli subentravano, e talvolta, scaldandosi le mani con una tazza di tè, scambiava con loro qualche informazione tecnica, piccole ricette di programmazione che ciascuno elaborava per conto proprio. I suoi colleghi erano appena usciti dal letto, dalle braccia della moglie; lui invece aveva un colorito terreo, la sua barba ruvida e nera durante la notte era cresciuta, e i suoi occhi brillavano di stanchezza. Nessuno osava domandargli che cosa facesse, quale fosse l’oggetto delle sue ricerche. A quegli uomini entusiasti, pionieri di una scienza troppo giovane per avere un passato, Turing appariva come un fantasma uscito proprio da quel passato inesistente.
La fama era arrivata in seguito a due articoli, di cui il più noto risaliva a vent’anni prima. I necrologi che i suoi colleghi pubblicarono sul Times e sulle riviste scientifiche facevano riferimento soltanto a quest’ultimo. In essi il defunto era presentato come un puro prodotto di Cambridge, distintosi negli anni Trenta per il suo contributo memorabile – anche se non quanto quello di Kurt Gödel – alla demolizione del programma di Hilbert, ovvero a uno di quei dibattiti sulla logica formale di fronte ai quali i matematici, tolta una stretta cerchia di specialisti, tendono a fare spallucce, ritenendo che, quando non sfondano delle porte aperte, i formalisti, come pure i loro critici, inventano problemi che nella pratica non incontra mai nessuno (e la pratica, ovviamente, non è la vita umana, ma le cataste di lemmi che costituiscono il lavoro matematico).


La macchina


Di che cosa si occupa la matematica pura? Della verità. A che cosa serve? A produrre verità. È il suo unico fine e la sua unica giustificazione: produrre enunciati che non servono a nulla, che non fanno riferimento a niente di ciò che l’uomo incontra nel mondo fisico, ma che sono veri, vale a dire dimostrati. In un’epoca in cui la scienza opponeva al determinismo laplaciano inquietanti chimere come gatti al tempo stesso vivi e morti, fotoni che seguono due traiettorie distinte senza dividersi e fenomeni che esistono solo se c’è qualcuno a osservarli, quest’arrogante pretesa di dire, se non tutta, quantomeno nient’altro che la verità rischiava fortemente di vedersi frustrata. Da cui il programma difensivo concepito da Bertrand Russell e Alfred Whitehead prima, e David Hilbert poi: riunire tutti i princìpi validi del ragionamento matematico in un sistema unico da cui sarebbero derivate tutte le verità deducibili – o, più precisamente, dimostrare che un tale sistema può esistere.
Nel 1928, dunque, Hilbert invitò i colleghi del mondo intero a concentrarsi su queste tre domande:


1. La matematica è completa? Id est.: ogni enunciato che produce può essere dimostrato o confutato?
2. La matematica è consistente? Id est.: è possibile dimostrare che l’enunciato 2 più 2 uguale a 5 non può e non potrà mai essere dimostrato attraverso una procedura valida?
3. È decidibile? Id est: dato un sistema assiomatico e una proposizione scelta arbitrariamente, esiste una procedura che consenta di determinare se tale proposizione sia [decidibile, vale a dire che possa essere dichiarata] vera o falsa all’interno del sistema?


Hilbert, formulandole, credeva che rispondere affermativamente a queste tre domande fosse possibile, e anche in tempi piuttosto brevi. Confidava in un triplo sì per risanare definitivamente le fondamenta della matematica, insieme formale completo, consistente e decidibile, su cui poter contare. Allora sarebbero anche potuti crollare gli imperi, vacillare i saperi, e anche se l’umanità fosse mutata o scomparsa, o addirittura la formula dell’acqua avesse smesso di essere H2O, sarebbe sempre rimasto questo, un sistema che avrebbe detto la verità, incarnato la verità, anche se non fosse rimasto nessuno per conoscerla.
Ma le cose andarono diversamente. Questo programma di purificazione formale aprì su abissi di incertezza e mise in luce una specie di nucleo ribelle, paradossale, che qualsiasi ragionamento matematico racchiude. L’evidenziazione di questo nucleo, una delle grandi scoperte di un’epoca in cui le grandi scoperte miravano a restringere o minare il campo della scienza, fu opera di Kurt Gödel, che con il suo famoso teorema dell’incompletezza, su cui sono state scritte intere biblioteche, dimostra con straordinaria eleganza come non ci si possa aspettare dai matematici che dicano la verità più di quanto facciano i cretesi, che si dichiarano essi stessi bugiardi.
Tutto ciò accadeva nel 1931. Alan Turing aveva vent’anni. Era un timido spilungone mal lateralizzato e scoordinato, che si dedicava alla corsa di fondo nel tentativo di correggere la propria goffaggine (e forse anche di combattere la masturbazione). A Cambridge, dove studiava matematica, non frequentava le consorterie di esteti chic nella tradizione di Bloomsbury, ma se ne stava in disparte e scriveva alla madre – una corrispondenza che verteva principalmente sulla biancheria intima e sugli animali di peluche. A parte questo, avendo Gödel liquidato la questione della completezza, Turing decise di lavorare su quella della decidibilità. E non solo la smontò, infliggendo un ulteriore colpo all’ottimistico programma di Hilbert, ma casualmente s’imbatté in altro.
In matematica esiste una quantità di affermazioni riguardanti dei numeri che, da secoli, nessuno ha mai saputo dimostrare o confutare (esempio canonico: l’ultimo teorema di Fermat). Turing si domandò se esistesse, o se si potesse immaginare una procedura meccanica che consentisse di farlo (poco importava quanto tempo ci sarebbe voluto: l’essenziale era dimostrare che tale dimostrazione poteva in qualche modo essere raggiunta). Quindi si domandò che cosa fosse di preciso una procedura meccanica, e approdò a una domanda che, al gotha dei matematici puri, poteva soltanto apparire incongrua: che cos’è una macchina?
Sappiamo che cos’è uno strumento. Crediamo di sapere cosa sia un essere vivente. Ma una macchina? Per descriverla nel modo più piano, è un manufatto dotato di un numero finito di configurazioni che per ognuna di esse si comporta in modo assolutamente determinato, e che manipola dei simboli. Manipolare simboli conformemente a delle regole è un’attività priva di senso, diciamo pure non figurativa, che però descrive ciò che a un altro livello chiamiamo per esempio giocare a scacchi, tradurre (o comporre) poesie cinesi, cercare dei numeri primi, e forse persino (ma andiamo per ordine) sostenere una conversazione, seppur sconnessa. Queste attività si differenziano le une dalle altre grazie a delle regole. Perciò Turing ritenne inutile costruire macchine specializzate, capaci di giocare a scacchi, tradurre poesie cinesi e così via: il procedimento adeguato consisteva piuttosto nel definire, per ciascuna di queste attività, la tavola delle regole, per poi introdurla in una macchina universale che, avendone a disposizione il codice, sarebbe stata in grado di simulare qualsiasi macchina specializzata. Oggi i concetti di hardware e software sono ormai alla portata di tutti, e tutti dànno per scontata la superiorità del secondo; ma quando Turing la formulò, nel 1934, quest’idea era così nuova che nessuno – o quasi – la raccolse. I lettori del suo articolo si entusiasmarono per il risultato che Turing aveva perseguito in un primo tempo, ovvero la dimostrazione formale, paragödeliana, che nessuna macchina miracolosa avrebbe mai potuto risolvere tutti i problemi matematici; ma nemmeno si accorsero di quest’altro risultato, conseguito per così dire strada facendo e in risposta alle esigenze della dimostrazione stessa (infatti, perché la prova somministrata a Hilbert fosse valida, occorreva che la macchina ipotizzata fosse veramente universale, vale a dire impossibile da migliorare, anche teoricamente): la rigorosa definizione di ciò che questa macchina miracolosa sarebbe potuta essere, dando fondo a tutte le risorse della “macchinità” ed esprimendone l’essenza. Il nome “macchina di Turing” entrerà in uso soltanto più tardi, ma oggi – e verosimilmente anche in futuro – quest’idea platonica della macchina è designata così.
Essendosi fatto un nome nel piccolo mondo della logica formale, il ventitreenne Turing trascorse due anni a Princeton, divenuta la Mecca dei matematici dacché ci si era trasferito Einstein. Alla fine di questo biennio, rifiutò l’ambìto posto di assistente di John von Neumann per ritornare a Cambridge, il luogo in cui tutto sommato si sentiva meno a disagio. Segui le lezioni di Wittgenstein sui fondamenti della matematica (e poiché era l’unico vero matematico della platea, Wittgestein gli addossava la responsabilità di tutto ciò che nella sua disciplina non tornava, chiamandolo a difenderla – compito che Turing assolveva di buon grado e con prosaicità). In quel periodo vide Biancaneve e i sette nani, appena uscito in sala, e i suoi amici raccontano con un certo stupore che per mesi canticchiò, con la sua voce sgradevolmente acuta, la canzone della strega che avvelena la mela. Imparò il gioco del go (Nota: Gioco da tavolo asiatico molto complesso. Fine nota) Infine, solo nel suo angolino e per pura curiosità intellettuale, si mise a lavorare sui sistemi di cifratura, cercando di determinare quello che sarebbe potuto essere il codice insieme più semplice, più universale e più inviolabile. Poi sopraggiunse la guerra, e nell’ambiente accademico persero le sue tracce.


Blechtley Park


In seguito, quando gli domandavano che cos’avesse fatto durante la guerra, Turing dava risposte evasive, e i più perspicaci erano indotti a pensare che avesse lavorato per l’Intelligence Service – naturalmente come scribacchino, o come piantone addetto ai sandwich: quale altro impiego si poteva immaginare, in seno all’esercito dell’ombra, per un logico distratto e immaturo? Più tardi ancora, vent’anni dopo la sua morte, trent’anni dopo la guerra, gli archivi furono resi pubblici e si seppe ciò che era stata l’operazione Ultra.
Da quando Hitler era salito al potere, i servizi segreti britannici cercavano invano di penetrare il sistema di cifratura dei messaggi strategici tedeschi, basato su una macchina chiamata Enigma. Questa macchina consisteva in una semplice scatola contenente dei rotori e collegata a due macchine per scrivere. Il testo, battuto in chiaro su una delle due macchine, veniva ingarbugliato dai rotori che giravano dentro la scatola e usciva dall’altra macchina teoricamente indecifrabile. L’unico modo per decifrarlo era procedere in senso inverso, ovvero far girare i rotori al contrario. In sé questo dispositivo non aveva nulla di straordinario, e non era neppure segreto: in origine serviva a proteggere delle informazioni commerciali e poteva procurarselo chiunque, come ci si procura un antifurto di cui basta conoscere il codice. Perché, anche in questo caso, bastava conoscere il codice, vale a dire la posizione iniziale dei rotori dentro la scatola. Il numero astronomico di posizioni possibili e la frequenza con cui venivano modificate valevano a Enigma una tale reputazione di inviolabilità che il comando supremo del Reich aveva esteso l’utilizzo della macchina a tutte e tre le armi.
Confrontati a questa sfida, che la minaccia di guerra rendeva sempre più impellente, da qualche tempo i funzionari della Government Code and Cyber School, fucina dipendente dal Foreign Office, andavano a pescare collaboratori in quel vivaio di scienziati chiamato Cambridge. Fu così che Alan Turing venne reclutato come decodificatore. In un primo tempo svolse un lavoro da consulente esterno e sembrava destinato a una placida vita di ricerca in logica formale e teoria dei numeri; ma poi scoppiò la guerra, la GC&CS fu trasferita in un edificio vittoriano di Blechtley Park – un paesino del Buckinghamshire – e per quattro anni Turing, alloggiato in un bed and breakfast dei dintorni, s’immerse nell’oscuro mondo dello spionaggio. All’inizio fu un po'’ come essere a casa: a forza di sottrarre cervelli a Cambridge, i militari finivano col sentirsi di troppo in mezzo a quella banda di campioni di scacchi, logici e criptoanalisti che se ne fregavano della gerarchia, non nascondevano di considerare la guerra una sorta di dispensatrice di crediti di ricerca e in mensa si perdevano in interminabili quanto astruse questioni teoriche di cui non si poteva neanche dire con certezza che esulassero dal loro lavoro. Benché alle soglie della trentina, Turing conservava un’aria da adolescente ed era l’esatto contrario di un leader naturale. Ma l’incarico che gli avevano affidato era perfettamente in linea con i suoi pallini di sempre, ed è sotto la sua direzione che fu costruita la macchina antiEnigma, battezzata la Bomba. Nell’aprile del 1940 la Bomba, perfettamente funzionante, fu installata in una cantina di Bletchley Park, dove erano stati riuniti tutti i terminali dei sistemi d’ascolto inglesi: tutto ciò che intercettavano i ripetitori radio sparsi per il mondo, passando da una parola d’ordine all’altra, andava a finire lì, in quella specie di enorme armadio che produceva calore e faceva un baccano infernale, e i cui circuiti ticchettanti esploravano i messaggi che gli venivano dati in pasto cercando, tra centinaia di migliaia di configurazioni diverse, di identificare quelle che presentavano qualche coerenza. Il domatore di questo mostro era un balordo invasato che portava un’enorme sveglia appesa alla cintura con un cordino e che nei corridoi spiegava a degli ufficiali infastiditi come faceva a evitare che gli cadesse la catena della bici: basta una semplice regolazione, assicurava, l’importante è sapere esattamente quando va fatta; e perciò aveva studiato da vicino la configurazione del proprio mezzo, determinata dalle relative posizioni di diversi ingranaggi che ruotavano autonomamente. Proprio come Enigma! Concludeva poi con la sua voce acuta, sforzandosi senza successo di scimmiottare il tono distaccato di Sherlock Holmes, quando aspetta che Watson batta le mani. È esattamente la stessa cosa!
Ma Turing coglieva davvero la portata del proprio lavoro? Era consapevole di ciò che gli gravava sulle spalle? Mentre queste domande facevano rabbrividire i militari, i fatti parlavano: nel giro di qualche mese la Bomba era diventata l’oracolo di Blechtley Park, Bletchley Park l’oracolo dello stato maggiore e Alan Turing, in quanto medium capace di far parlare la Bomba, la chiave di volta del dispositivo di guerra britannico.
Il problema principale era la velocità. All’inizio ci volevano quasi due settimane per decifrare un messaggio, che a quel punto non aveva più alcun valore. Ma l’équipe di Turing, fermamente sostenuta e quindi finanziata da Churchill – che da subito considerò Ultra l’operazione più decisiva della guerra – riuscì a ridurre il tempo necessario a pochi giorni, poi a un solo giorno e infine a qualche ora. Gli inglesi cominciarono a farsi un’idea precisa di ciò che avveniva in campo nemico e, all’inizio dell’estate 1941, si ebbero i primi risultati concreti: l’Inghilterra, che da un anno vedeva affondare i propri sottomarini uno dopo l’altro, diede l’avvio alla riconquista dei mari. Ogni volta che gli annunciavano una vittoria, o una scampata sconfitta, Turing doveva superare un primo moto d’incredulità: davvero ciò che cincischiava con i suoi diagrammi e le sue valvole, esattamente come con i pignoni della sua bicicletta, aveva un’incidenza sulla vita reale, su degli avvenimenti reali, che coinvolgevano milioni di uomini in carne e ossa? Dopodiché esultava come un ragazzino che vince a battaglia navale – e di fatto era proprio ciò che accadeva.
Quando la Bomba ebbe raggiunto la sua velocità e dunque la sua efficienza massima insorse un altro problema, che non riguardava direttamente Turing, ma lo stato maggiore che Turing informava. Che fare di queste informazioni? Sventando sistematicamente i piani di cui si era a conoscenza non si rischiava di allarmare i tedeschi? Se sospettava di essere stato smascherato, il nemico avrebbe inevitabilmente modificato il sistema di cifratura, e il dispositivo Ultra sarebbe fallito. D’altra parte non si poteva lasciar affondare dei sottomarini solo per fugare il sospetto che li si sarebbe potuti salvare. Su un piano teorico era uno di quei dilemmi con cui i logici vanno a nozze: è meglio prosciugare una sorgente a forza di berci o morire di sete per preservarla? Sul piano pratico, lo stato maggiore si accorse con sorpresa che le azioni difensive, dapprima discrete, quindi sempre più spettacolari, non suscitavano alcuna reazione da parte di Enigma. I tedeschi, come si sarebbe scoperto in seguito, confidavano a tal punto nell’inviolabilità del loro sistema che preferivano attribuire le disfatte all’eccellenza delle spie britanniche, cui diedero accanitamente la caccia fino alla fine della guerra, senza mai immaginare neanche per un secondo che i loro messaggi strategici venissero quotidianamente decifrati, e che la loro posizione fosse quella di un giocatore di poker dietro cui è stato messo uno specchio.
A partire dal 1943, l’uomo che, esplorando dei problemi di logica, aveva appeso questo specchio alle spalle dei tedeschi, a Bletchley Park perse progressivamente la sua importanza. Il laboratorio in cui lavorava, clandestino e periferico, era diventato una fabbrica della decifrazione che contava diecimila impiegati e sei copie della Bomba originale. Queste bombe macinavano ed elaboravano dati a tutto spiano; ora si trattava più che altro di farle rendere, di organizzare, di decidere – attività in cui il padre della Bomba certo non brillava. Turing diventò sempre meno assiduo, quindi ripiegò su Hanslope Park, un’altra unità dello spionaggio militare dove, senza sapere bene quale fosse il suo statuto, gli permisero di allestire un laboratorio in un capannone insalubre. Qui Turing si dedicò alla messa a punto di un sistema di cifratura della parola umana che battezzò Dalila. Il materiale di partenza era una registrazione di discorsi di Churchill che veniva ridotta a poltiglia sonora e riassumeva la sua forma originale dopo essere stata decifrata. I rari ufficiali cui confidò la sua invenzione non ne furono affatto convinti, quanto a Churchill, non ne seppe mai nulla. Pochissimi sapevano, all’infuori di Bletchley Park; e ormai anche chi sapeva doveva fare uno sforzo di memoria e di intelligenza per concludere che lo sbarco in Normandia, la vittoria ormai ineluttabile degli Alleati e quel tizio goffo e silenzioso che faceva l’Archimede Pitagorico nel suo capannone erano strettamente connessi. Dal canto suo, nei dieci anni di vita che gli restavano, Turing non ne fece parola. Sua madre, che per lui faceva sogni di gloria, dovette accontentarsi di ritagliare rari articoli di cui non capiva niente e che continuavano a menzionare il suo Alan come una speranza della logica formale, quest’antiquata disciplina che sapeva di anni Trenta. Forse Turing temeva che se avesse spiegato come, in un certo senso, aveva vinto la guerra, lo avrebbero preso per pazzo. O forse i suoi pensieri erano ormai rivolti altrove.


Il gioco dell’imitazione


Turing aveva vinto la guerra, ma perse la pace. Non essendo il tipo che coltiva amicizie interessate o che, come molti ex collaboratori di Ultra, si fa nominare in qualche comitato prestigioso, tornò alla vita borghese in veste di anonimo ricercatore all’università di Cambridge, poi di Manchester, dove era in corso un progetto per la realizzazione di un computer inglese, rivale del famoso ENIAC che l’équipe di Eckert e Mauchlay stava costruendo in America. Per i suoi contemporanei più illuminati, un computer era una macchina capace di addizioni e moltiplicazioni molto veloci – e tutto sommato la Bomba era questo; ma per Turing quest’applicazione, benché incontestabilmente utile, non era essenziale: ciò che a lui interessava era il sistema logico implicato. La macchina dei suoi sogni sarebbe stata in grado di applicare qualsiasi programma, e occorreva poter fabbricare programmi in grado di svolgere (o simulare, posto che ci sia una differenza) qualunque processo di cui si avesse conoscenza. A quanti affermavano sdegnosi che una macchina avrebbe sempre e soltanto potuto eseguire delle operazioni aritmetiche, rispondeva che non era neppure capace di questo, e non lo sarebbe mai stata: una macchina non sa fare di calcolo più di quanto non giochi a scacchi o non scriva poesie, ma il suo programma può consentirle di manipolare dei simboli formali di modo che sembrerà fare ciò che il linguaggio corrente indica con il nome delle suddette attività. Esattamente la stessa cosa, sosteneva Turing, può dirsi del cervello umano. Di qui la sua ambizione di “creare un cervello”.
Un’idea, questa, che alla fine degli anni Quaranta era nell’aria. Ancora non si parlava di informatica, ma di cibernetica. Vescovi e filosofi dibattevano animatamente intorno all’idea rivoltante che una macchina creata dall’uomo potesse un giorno pensare come il proprio creatore. Ai nomi illustri di questa nuova scienza – Norbert Wiener, J. B.S. Haidane, John von Neumann – talvolta le persone meglio informate aggiungevano quello di Turing, oscuro precursore che non faceva parlare di sé dai tempi del suo famoso articolo del 1934. Adesso l’espressione “macchina di Turing” per designare l’essenza della “macchinità” aveva acquisito diritto di cittadinanza, anche se nelle pubblicazioni scientifiche si era arrivati a scriverla con una t minuscola – segno di consacrazione suprema o di oblio siderale. Come la prendesse il diretto interessato rimane un mistero, e probabilmente il suo biografo non ha torto quando dice che, ridotto al ruolo di marginale eccentrico, dopo la guerra Turing era diventato un «nonpersonaggio», il Trotzky della rivoluzione informatica.
Collaborava, è vero, al programma di Manchester, ma i responsabili del laboratorio tenevano sempre meno in conto il suo parere (il software, prima di tutto il software!), e non trovarono di meglio che affidargli la redazione di un Manuale per l’uso e la composizione di programmi con routines, subroutines, subsubroutines, ad esempio per scoprire grandi numeri primi (domanda: 2 elevato a 127 meno 1 è un numero primo? Trovate la procedura più rapida per rispondere). Turing ripiegò dunque sulla teoria e, sottoforma di un articolo apparso sulla rivista Mind nel 1950, apportò il proprio contributo al dibattito sull’intelligenza artificiale che vedeva opporsi, allora come ora, il partito dei materialisti, persuasi che almeno in teoria tutte le operazioni della mente umana possano essere scomposte, e quindi riprodotte, e quello degli spiritualisti, i quali sostenevano che ci sarà sempre un residuo ribelle all’algoritmo – residuo che, a seconda del cenacolo, verrà chiamato spettro nella macchina coscienza riflessiva, paradosso dell’autoriferimento o semplicemente anima.
Per vederci più chiaro e riscattare la questione da quella vaga enfasi che tanto piaceva ad un “profeta” come Wiener, Turing cominciò con l’inventariare le argomentazioni passate, presenti e future che negavano la possibilità di un’intelligenza artificiale: le macchine fanno soltanto ciò per cui sono state programmate, sono specializzate, non hanno gusti, capricci, emozioni, non possono né soffrire né amare le fragole con la panna e così via. Quindi, ritenendole tutte insufficienti, propose che per decidere se una macchina può pensare come un uomo ci si attenesse a un criterio unico, operazionista: è capace o non è capace di far credere a un uomo che pensa come lui?
Il fenomeno della coscienza non può che essere osservato dall’interno. Io so che ne ho una, è anzi grazie a lei che lo so, ma per quanto riguarda voi, non c’è nulla che me lo provi. In compenso posso dire che emettete dei segnali, in particolare gestuali e verbali da cui, per analogia con i miei, deduco che pensate e sentite come me. Ora, disse Turing, ammettiamo che, in un vicino o lontano futuro, una macchina possa essere programmata in modo tale da emettere in risposta a determinati stimoli segnali ugualmente convincenti: non ci sarebbe motivo di negarle lo status di essere pensante.
Posto questo criterio, Turing elaborò un test che – cosa piuttosto insolita – presentò in due tempi. Dapprima descrisse un gioco di società (non so se di sua invenzione) chiamato gioco dell’imitazione, che consiste nell’isolare in tre diverse stanze un uomo, una donna e un esaminatore – non importa di che sesso. Questo esaminatore comunica per iscritto con i due giocatori e bombarda entrambi di domande volte a stabilire chi è l’uomo e chi la donna. Ora, mentre quest’ultima risponde in tutta franchezza, rivelando quindi il proprio sesso senza ambiguità, l’uomo cerca di spacciarsi per la donna (e, beninteso, si è seriamente documentato sulle questioni tradizionalmente di competenza femminile: cucina, prezzo di collant e assorbenti igienici).
Adesso, propose Turing, sostituiamo l’uomo con un computer e vediamo che cosa accade se l’obiettivo di quest’ultimo è di spacciarsi per l’essere umano, e dunque di squalificare quest’ultimo. Le domande possono spaziare dal sapore della crostata ai mirtilli ai ricordi d’infanzia alle preferenze erotiche o, al contrario, consistere in operazioni di calcolo che presumibilmente l’uomo dovrebbe svolgere più lentamente della macchina, e con esito peggiore. Sono ammesse domande di ogni tipo, anche le più intime e strampalate: i koan zen sono una classica tecnica di confusione. Dal canto loro, i candidati si dànno da fare per convincere l’esaminatore di essere umani, uno in assoluta buona fede, l’altro ricorrendo alle mille astuzie previste dal suo programma – vedi sbagliare deliberatamente l’estensione decimale di pi greco. Alla fine l’esaminatore emette il suo verdetto. Se si sbaglia, la macchina ha vinto. Allora, secondo Turing, si è costretti ad ammettere che pensa, e se lo spiritualista di turno insiste che non si tratta veramente di un pensiero umano non gli resta che dimostrarlo. E Turing può permettersi di ribadire che nessuno, uomo o macchina che sia, pensa veramente, esegue veramente operazioni matematiche, gioca veramente a scacchi; e forse, addirittura, nessuno prova veramente la dolcezza di una carezza: a livello di sistema formale tutti, uomini e macchine, manipolano simboli – e si dà il caso che questa manipolazione possa, a un altro livello, essere designata con il nome delle diverse attività menzionate.
Alcune settimane dopo la pubblicazione di questo articolo, che nel mondo dell’intelligenza artificiale è tuttora considerato un testo di riferimento, all’autore accadde una cosa terribile, che con il gioco dell’imitazione ha qualche parentela. Turing era omosessuale. Per quanto lo riguardava, era sufficientemente libero da condizionamenti per non sentirsi in colpa, ma la società in cui viveva non era certo delle più libere. Costretto a nascondere la propria natura, a spacciarsi per ciò che non era, amava paragonarsi a un abitante del mondo dello specchio di Lewis Carroli, la cui percezione delle cose è rovesciata. Un giorno gli svaligiarono la casa. Con ogni probabilità era stato uno dei suoi amanti. Nella deposizione alla polizia Turing accennò a questo sospetto, e di conseguenza alla propria omosessualità, incorrendo così, inconsapevolmente, nella legge che vietava le relazioni contro natura anche tra adulti consenzienti (la stessa legge che, quasi sessant’anni prima, aveva valso una condanna a Oscar Wilde). Ci fu un processo, Turing fu giudicato colpevole e, sfuggendo per un pelo alla prigione, fu condannato a subire – ovviamente per il suo bene – una cura in cui diverse commissioni di legisti e medici dell’epoca confidavano per correggere i deviati. Per un anno gli furono dunque iniettati degli ormoni femminili che lo resero impotente, gli fecero crescere i seni, gli inibirono la crescita della barba e trasformarono la voce, già penosamente stridula. Turing sopportò il supplizio senza un lamento, riuscendo persino a scherzarci sopra e ad approfittarne per fare un outing quasi disinvolto con i colleghi e parte della famiglia. Trascorso un anno, purgata la pena, a poco a poco recuperò la sua integrità, e a tutti sembrò aver superato la prova con sconcertante coraggio. Intraprese una psicoanalisi (pur rifiutando di considerare l’omosessualità come una malattia da cui avrebbe dovuto guarire), lesse con passione Guerra e pace e Anna Karenina (lui che non leggeva mai narrativa) e, definitivamente tagliato fuori dall’università, ripose tutte le sue speranze di rinascita scientifica in una serie di ricerche da autodidatta sull’embriologia e la morfogenesi. In sostanza si domandava come avviene che gli esseri viventi conoscano e applichino il loro programma. Testava i suoi modelli sul computer, che gli permettevano di usare due notti la settimana senza sapere bene cosa ci facesse, ma anche a casa propria, seguendo dei protocolli estremamente personali. Casa sua si riempì di talee, di incubatrici e di acquari gorgoglianti.
In alcune stanze regnava un caldo da serra, in altre si gelava. Coi suoi esperimenti di elettrolisi, Turing cercava di capire quali elementi puri fosse possibile isolare a partire da comuni detersivi. Sembrava il laboratorio dello scienziato pazzo in un Bmovie degli anni Cinquanta.
Su questi esperimenti in stile piccolo chimico, che per uno scienziato di alta levatura appaiono piuttosto regressivi, è stato versato molto inchiostro, e di uno strano colore. Nel primo libro in cui, più di dieci anni fa, ho letto il nome di Alan Turing (un’opera divulgativa sull’intelligenza artificiale), si diceva che «fu trovato morto su un’isola deserta, avvelenato da una mela che aveva intinto nel cianuro». Confesso che nella mia infatuazione per Turing quest’isola così romanzesca all’epoca fece la sua parte; e quando, in un testo più serio, appresi che era semplicemente morto a casa sua, rimasi insieme deluso e intrigato: come aveva fatto il divulgatore ad approdare alla storia dell’isola? Ripensandoci ora, mi sembra che la cosa si spieghi con una lettura frettolosa delle fonti che menzionano quei famosi esperimenti chimici, effettuati in condizioni da isola deserta, senza altro materiale se non quello di cui dispongono i naufraghi ingegnosi dei romanzi di avventura. Si sarebbe ugualmente potuto dire che viveva nella periferia di Manchester solo e abbandonato alle sue risorse come su un’isola deserta. Infine, sempre a proposito di quei curiosi esperimenti, esiste un’altra tesi secondo cui Tuning vi si sarebbe dedicato per coprire il proprio suicidio, e lasciare alla madre la possibilità di credere a una morte accidentale. Che fosse o meno sua intenzione, lei ci credette davvero.
Ai tempi in cui, sulla base del capitolo che ho appena citato, cominciai a interessarmi ad Alan Turing, esisteva su di lui un unico libro, difficile da trovare, scritto da una certa Sara Turing; e ricordo il turbamento che provai scoprendo che non era né sua figlia, né sua sorella – come avevo supposto in un primo tempo – bensì sua madre.
Scrivere un libro, qualsiasi libro, richiede ciò che i giuristi chiamano «interesse ad agire», e Sara Turing ne aveva uno potente. Riusciva dolorosamente ad ammettere che suo figlio fosse morto, ma non che si fosse suicidato, e ancor meno che l’avesse fatto in seguito, se non a causa di una terribile prova fisica e morale, subita perché omosessuale. A più di settant’anni, la madre decise di scriverne la vita per assolverlo dal primo crimine e passare il secondo sotto silenzio. E lo fece affidandosi a un curioso metodo: anziché riunire i propri ricordi per ritrarre Alan Turing come lei, sua madre, l’aveva conosciuto, concepì l’ambizioso progetto di un’opera obiettiva, imparziale, che redasse in uno stile quanto più impersonale possibile con l’intento di fornire non una testimonianza, ma una biografia ufficiale. Nessuno, ai tempi in cui Sara Turing vi si dedicò, avrebbe avuto accesso a fonti sufficienti per portare a termine una simile impresa – e del resto nessun altro ne avrebbe visto la necessità. Ma, paradossalmente, nessuno era meno indicato di lei per intraprenderla.
Volendo riassumere molto brevemente i tratti salienti della sua vita, diremmo che Alan Turing è stato: 1) un importante matematico e un pioniere dell’intelligenza artificiale; 2) una figura insieme centrale ed eccentrica della storia dello spionaggio durante la Seconda guerra mondiale; 3) un omosessuale martire. Queste tre sfere di attività hanno un unico punto in comune: i matematici, le spie e gli omosessuali (quantomeno in un paese dove le loro inclinazioni amorose sono punite dalla legge) costituiscono tre società segrete. E la vita di Turing si svolse all’interno di queste tre società, in maniera rigorosamente compartimentata. Degli uomini che frequentava nell’una, nessuno – o quasi – sapeva quale fosse il suo ruolo nelle altre. Tuttavia, ognuna di queste persone – logici, agenti segreti o amanti che fossero – con Alan Turing condivideva qualcosa, sapeva qualcosa di lui, avrebbe avuto qualcosa da dire in proposito. La sua prima biografa, viceversa, era forse l’unica persona che non aveva accesso ad alcuna delle sue tre esistenze, e che di lui non sapeva niente (se non del bambino che era stato, ma nel libro non ne parla quasi, pur continuando a ripetere che lo è rimasto per tutta la vita); il che fa della sua opera, per certi versi commovente, una specie di punto limite del genere.
Nel 1959, quando apparve la sua prima biografia, il nome di Turing suscitò una certa risonanza, peraltro debole, soltanto all’interno della comunità matematica. Poi, nel corso degli anni Sessanta, l’intelligenza artificiale diventò un argomento popolare, e i libri divulgativi cominciarono a menzionarlo infiorando le inevitabili leggende sulla macchina e il test con una quantità di aneddoti, più o meno autentici, sul tema dello scienziato pazzo. E quando, verso la fine degli anni Settanta, gli archivi britannici sulla guerra furono resi pubblici, sull’avventura di Bletchley Park e sul contributo di Turing apparvero diverse testimonianze. Ciononostante erano pochi coloro che coltivavano curiosità sufficientemente varie per assemblare le tessere del puzzle e fissare l’importanza di questo sfuggente personaggio. È il merito di Andrew Hodges, che, matematico di professione e gay militante, aveva almeno due “interessi ad agire”, e nel 1984 pubblicò una stupenda biografia da cui proviene gran parte delle informazioni raccolte in questo articolo.
(Proprio in quel periodo stavo progettando di scrivere un libro su Turing – progetto da cui la pubblicazione del monumento di Hodges mi fece desistere. Dieci anni più tardi, grazie a questa rivista, ho formulato un progetto più ,modesto: innanzitutto riassumere Hodges – cosa che ho fatto come meglio ho potuto – quindi interrogarmi sugli “interessi ad agire” che mi avevano spinto ad affrontare l’argomento. Ma questo magari sarà per un’altra volta, sotto un’altra forma).



Daniel Dennett, La rivoluzione silente di Alan Turing,  “Il Sole24ore”, 9 ottobre 2011

«È possibile inventare un'unica macchina che può essere usata per computare qualsiasi sequenza computabile» (Turing, 1936).
Alan Turing non solo ha intuito che questa impresa era possibile: ha anche esattamente mostrato come realizzare questa macchina. Con la sua dimostrazione nasceva l'era dei computer. È importante ricordare che esistevano entità chiamate computer anche prima che a Turing venisse questa idea, ma erano persone, impiegati con sufficiente attitudine matematica, pazienza e passione per il proprio lavoro da generare risultati affidabili in ore e ore quotidiane di computazione. Molti di loro erano donne. Migliaia erano impiegati nell'ingegneria e nel commercio, nelle forze armate e altrove, impegnati a calcolare tavole per la navigazione, per l'artiglieria e altre imprese tecniche del genere.
Un buon modo per comprendere la rivoluzionaria idea di Turing sulla computazione è quello di accostarla a quella di Darwin sull'evoluzione. Il mondo pre-darwiniano era unito non dalla scienza ma dalla tradizione: tutte le cose dell'universo, dalla più elevata (l'uomo) alla più umile (la formica, il sassolino, la goccia di pioggia) erano creazioni di qualcosa di ancora più elevato, Dio, un onnipotente e onnisciente creatore intelligente, che assomigliava in modo impressionante alla seconda cosa più elevata. Chiamiamo questa la teoria «a cascata dall'alto» (trickle-down) dell'evoluzione. Darwin l'ha rimpiazzata con una teoria «a ebollizione dal basso» (bubble-up) della creazione. Una delle critiche del diciannovesimo secolo a Darwin lo chiarisce vividamente: «Nella teoria con cui abbiamo a che fare, l'artefice è l'Ignoranza Assoluta; così che il principio fondamentale dell'intero sistema potrebbe essere: per fare una perfetta e bellissima macchina, non è necessario sapere come farla.
Il Signor Darwin, grazie a una strana inversione del ragionamento, sembra ritenere la Assoluta Ignoranza pienamente qualificata a prendere il posto della Assoluta Sapienza in tutte le realizzazioni della potenza creativa» (MacKenzie, 1868). 
Si trattava in effetti, di una strana inversione di ragionamento. L'idea di Turing comporta una simile – in effetti, incredibilmente simile – strana inversione di ragionamento. Il mondo prima di Turing era un mondo in cui i computer erano persone, persone che dovevano comprendere la matematica per fare il proprio lavoro. Turing comprese che questo era semplicemente non necessario: si potevano prendere i loro compiti e spremere via fino all'ultima minuscola briciola di comprensione, lasciando nient'altro che mere azioni meccaniche. Per essere una perfetta e bellissima macchina da calcolo non è necessario conoscere l'aritmetica.
Quello che sia Darwin che Turing avevano scoperto, ciascuno a suo modo, era l'esistenza della «competenza senza comprensione» (Dennet, 2009). Questo ha invertito l'assunzione, profondamente plausibile, che la comprensione sia di fatto la fonte di qualsiasi competenza avanzata.
Consideriamo come Turing ha condotto la sua dimostrazione. Ha preso come modello i computer umani. Costoro sedevano alla propria scrivania, facendo un passo semplice e altamente affidabile dopo l'altro, controllando il proprio lavoro, scrivendo i risultati intermedi invece di affidarsi alla propria memoria, consultando i protocolli ogni volta che era necessario, trasformando quello che a prima vista poteva sembrare un compito difficile in una routine da eseguire a occhi chiusi. Turing ha sistematicamente scomposto i passaggi semplici in passaggi ancora più semplici, rimuovendo ogni traccia di discernimento e comprensione. Egli ha così approntato un inventario di mattoni di base con cui costruire un algoritmo universale che potesse eseguire qualsiasi altro algoritmo. Si può iniziare con i semplici mattoni di base che Turing ha isolato, e costruire, livello dopo livello, qualsiasi computazione più sofisticata, ripristinando così gradualmente quell'intelligenza che Turing aveva così abilmente eliminato dalle pratiche dei computer umani.
Turing, come Darwin, ha scomposto il mistero dell'intelligenza (o Disegno Intelligente) in quelli che potremmo definire passaggi atomici di muta casualità, che, accumulati a milioni, si sommano in una pseudo-intelligenza. L'unità centrale di elaborazione di un computer non sa davvero cosa sia l'aritmetica, né capisce cosa sia un'addizione, ma "capisce" e "comanda" di sommare due numeri e mettere il risultato in un registro, nel senso minimale, che somma correttamente quando richiesto e mette la somma al posto giusto. Diciamo che si comporta come se capisse le addizioni. Salendo di livello, il sistema non comprende davvero che sta individuando e correggendo eventuali errori di trasmissione, ma si comporta come se lo comprendesse, ed esegue correttamente il lavoro richiesto. Salendo ancora di livello, quando i mattoni sono impilati a miliardi e triliardi, il programma di scacchi non capisce davvero che la sua regina è in pericolo, ma è come se lo capisse, e il computer Watson dell'Ibm a Jeopardy! (un quiz show) è come se capisse le domande cui risponde.
Non siamo ancora arrivati a una comprensione "reale" nei robot, ma ci stiamo avvicinando. Questa almeno è la convinzione delle persone ispirate dall'intuizione di Tulving. I sostenitori della teoria "a cascata dall'alto" sono assolutamente certi che nessun ulteriore progresso ci condurrà a una comprensione reale. Essi pensano che una res cogitans cartesiana, una cosa pensante, non possa essere costruita partendo dai mattoni di base di Turing. Così come i creazionisti sono certi che nessun rimescolamento, copia e selezione darwiniana possa portare agli esseri viventi (reali). Hanno torto, ma si può capire il disagio che motiva la loro convinzione. 
La strana inversione del ragionamento di Turing, come quella di Darwin, va contro la natura di millenni di pensiero. Se la storia della resistenza al pensiero darwiniano è una buona misura, possiamo aspettarci che in futuro, anche dopo che ogni trionfo del pensiero umano sarà stato eguagliato o superato da "mere macchine", ci saranno ancora pensatori che insisteranno che la mente umana lavora per vie misteriose che nessuna scienza potrà mai comprendere.

Dal blog di Tommaso Pincio: Il tempo delle mele


A quanto pare negli Stati Uniti dilaga l’analfabetismo matematico. Quando si tratta di numeri l’americano medio non sa dove sbattere la testa. È forse per questo che gli autori dei Simpson condiscono spesso il serial con gag di sapore matematico? In una vecchia puntata della serie, Homer Simpson venne accidentalmente catapultato in uno strano mondo con equazioni e figure geometriche che fluttuano nell’aria. Nel bel mezzo dell’episodio il professor Frink, il classico tipo dello scienziato pazzo, tenta di spiegare al capo della polizia, il classico tipo dell’idiota, come funzioni lo spazio a tre dimensioni. «Dovrebbe essere ovvio anche ai più tardi di comprendonio in possesso di un diploma in topologia iperbolica che Homer Simpson è inciampato nelle terza dimensione. Ecco, questo è un comune quadrato» dice il professore disegnando il quadrato sulla lavagna mentre il capo della polizia stenta a seguirlo. «Supponiamo ora di estendere il quadrato oltre le due dimensioni del nostro universo, lungo l’ipotetico asse z. Otterremmo un oggetto tridimensionale conosciuto come “cubo” o anche “frinkaedro” in omaggio al suo scopritore». La spassosa gag solleva una questione interessante. I Simpson hanno ormai assurto allo stato di oracolo pop dello scibile contemporaneo ma rimangono pur sempre cartoni animati, la loro esistenza si consuma in un mondo in tutto e per tutto bidimensionale. Il capo della polizia ha dunque le sue buoni ragioni per essere perplesso. Nel mondo dei Simpson, quello che il professor Frink disegna sulla lavagna non può essere un cubo ma solo un esagono con tre linee al suo interno. Anche nel nostro mondo accadono equivoci simili. Se la matematica risulta tanto oscura a noi comuni analfabeti è perché sovente rappresenta cose che non riusciamo a vedere o, per meglio dire, cose che non vediamo come i matematici riescono a vederle. Quando osserviamo il monitor di un computer, tanto per fare un banalissimo esempio, noi analfabeti matematici vediamo una specie di televisore interattivo e non abbiamo la più la pallida idea di come un gigantesco ammasso di semplici 0 e 1 possa trasformarsi un’imitazione elettronica del nostro del cervello. Molti di noi ignorano inoltre che la mela raffigurata sui computer prodotti da una nota azienda americana è qualcosa di più di un semplice logo. All’indomani della recente scomparsa di Steve Jobs, l’inviato negli Stati Uniti di noto quotidiano ha collegato il frutto alla conoscenza che Dio proibì alle sue creature quando queste dimoravano ancora nel Paradiso terrestre; al fattaccio di Adamo ed Eva, insomma. E dire che il giornalista si picca d’essere un intenditore in fatto di Mac. In realtà, la mela morsicata è un simpatico quanto macabro omaggio all’inventore della macchina che ha rivoluzionato le nostre vite, un modo per restituire ad Alan Turing quel che è di Turing. Se ci fosse un po’ di giustizia a questo mondo i computer dovrebbero infatti chiamarsi turing o qualcosa del genere, né più meno come nel mondo dei Simpson i cubi si chiamano frinkaedri. La ragione di questo mancato riconoscimento ha anch’essa a che fare coi cartoni animati ed è alla base di un libro di David Leavitt, L’uomo che sapeva troppo

Per molti versi la storia di Alan Turing inizia dalla fine, l’8 giugno 1954, quando il quarantunenne ricercatore matematico dell’università di Manchester fu trovato morto dalla sua governante. La sera precedente, poco prima di stendersi sul letto, Turing aveva dato un paio di morsi a un mela apparentemente corretta al cianuro. In capo a pochi giorni gli inquirenti archiviarono il decesso come un bizzarro caso di suicidio. Alan Turing era solito mangiucchiare una mela prima di coricarsi e nutriva una passione speciale per Biancaneve e i sette nani, il celebre lungometraggio a cartoni animati di Walt Disney. Coloro che lo conoscevano sostennero inoltre che Turing adorava canticchiare la canzone della strega: «Dip the apple in the brew, let the sleeping death seep through». Intingi il frutto nel veleno fino a quando ne sia pieno. Tutto quadrava. Il titolo scelto da Leavitt per la sua biografia — ovviamente preso in prestito da un altro classico della cinematografia, l’omonimo film di Alfred Hitchcock — lascia però intendere che le cose possano essere andate diversamente dalla versione ufficiale ovvero che dietro la morte di Turing si nasconda un complotto spionistico. Erano gli anni Cinquanta, in fondo, la guerra fredda spopolava e Turing sapeva davvero molte cose. Durante il recente conflitto mondiale aveva lavorato a Bletchley Park, la segretissima residenza nei pressi Londra dove fu decifrato Enigma, il micidiale codice dei nazisti. Quindi si era dedicato alla costruzione di una macchina capace di pensare e della quale era di certo meglio che il nemico non sapesse. Infine era omosessuale, che in quegli anni equivaleva a essere bollato come probabile traditore. Nel 1951 un viaggio a Mosca di due diplomatici britannici gay fu il pretesto per affermare apertamente che era ormai giunto il momento di imitare gli americani, ovverosia «estirpare i pervertiti, sia quelli sessuali che quelli politici». Fatalmente, Leavitt non ha potuto aggiungere molto a quanto già ignoravamo sulla morte di Turing e si destreggia non poco nella scalata agli specchi per non ricalcare quanto già scritto anni fa da Andrew Hodges nella sua pregevole e dettagliatissima biografia del matematico inglese. Leavitt si fa però apprezzare per la sue doti di consumato narratore e per il modo in cui affronta la questione — da lui particolarmente sentita — della discriminazione sessuale. Del resto, è stata la stessa madre a respingere l’ipotesi di un complotto. Secondo lei, Alan era piuttosto sbadato e dovette aver ingerito per sbaglio qualche sostanza chimica con cui trafficava durante i suoi esperimenti casalinghi. La signora non diede peso a una lettera in cui Turing parlò di un mezzo per suicidarsi che «implicava l’uso di una mela e di certi fili elettrici». Evidentemente nemmeno lei gradiva l’idea che il figlio potesse essersi tolto la vita.
Ma non c’è soltanto la mela di Biancaneve. Come già ricordato c’è pure quella offerta da Eva ad Adamo, quella che costò al genere umano la possibilità di godere delle comodità di un paradiso in Terra. E qui si potrebbe speculare su una curiosa similitudine. La mela di Eva era il frutto della conoscenza del bene e del male, quella di Turing il simbolo dell’era dell’informazione. Scherzando sull’audacia della sua invenzione, il matematico si accusò una volta di «prometeica irriverenza». Col senno di oggi, la battuta pare particolarmente azzeccata perché, se Frankenstein è stato il Prometeo moderno, il computer è senza dubbio il Prometeo postmoderno. Il senso del peccato riveste un ruolo centrale in tutta questa storia. Poco prima della morte Turing fu arrestato, l’accusa era di atti osceni gravi con un altro uomo, lo stesso «crimine» per cui più di mezzo secolo prima Oscar Wilde fu sbattuto in galera. «Quel che restò della vita di Alan Turing dopo l’arresto fu una lenta e triste caduta nel dolore e nella follia» scrive Leavitt. «Processato per reati contro la morale, fu condannato — anziché alla prigione — a subire un ciclo di trattamenti agli estrogeni allo scopo di “curarlo” dall’omosessualità. Le iniezioni producevano l’effetto della castrazione chimica. E, quel che è peggio, avevano degli effetti umilianti. Il podista smilzo diventò grasso. Gli crebbe il seno». Gli ultimi anni devono essere stati tremendi per lo sventurato Turing il quale temeva tra l’altro che sulla sua invenzione potesse gravare per sempre il peccato della perversione sessuale. In una lettera di quel periodo scriveva infatti: «Ho proprio paura che qualcuno in futuro possa usare il seguente sillogismo: Turing crede che le macchine pensano. Turing giace con gli uomini. Quindi le macchine non sanno pensare». La lettera era firmata: «sempre tuo nell’angoscia, Alan». Tanto per dare un’idea di quale fosse il suo stato d’animo. Si è detto che Leavitt non ha grandi rivelazioni da fare sulla stramba morte del matematico. Avanza tuttavia un’ipotesi sulla natura del suicidio, ammesso che tale sia stato. Sono infatti in molti a testimoniare che nei giorni immediatamente precedenti la morte Turing fosse di buon umore malgrado i recenti e spiacevoli trascorsi. L’idea di Leavitt potrà sembrare fantasiosa ma è comunque ammissibile visti particolari processi mentali del soggetto in questione. In sostanza, si sarebbe trattato di qualcosa di simile al suicidio inscenato nel film L’uomo che sapeva troppo, con la differenza, però, che alla fine l’improvvisato attore è morto davvero. Stando allo scrittore, Turing fu visitato dall’idea del suicidio all’improvviso e lo attuò quasi per scherzo. Per gigioneggiare un po’. Per ammantare la sua dipartita dal mondo con lo splendore gotico, misterioso e colorato di un film di Disney. Ovviamente a Leavitt non sfugge che «nella fiaba, la mela non uccide Biancaneve; la fa dormire finché il Principe non la sveglia con un bacio».
Riguardo le sue paure, Turing non aveva torto. Ancora negli anni Ottanta egli veniva perlopiù ricordato come un martire dell’intolleranza britannica in fatto di omosessualità e per lungo tempo molte sue innovazioni nella scienza dei computer furono attribuite a John von Neumann con il quale entrò in contatto durante il periodo trascorso a Princeton, il tempio americano della matematica. Qualcuno si è anche spinto al punto di speculare che la sua maestria nei codici cifrati derivasse dal bisogno di nascondere la vera identità sessuale. Il computer inizialmente immaginato da Turing era assai diverso dalla macchina con cui oggi interagiamo. Niente processori e schede madri. La macchina pensante di Turing era qualcosa di genialmente casereccio. Consisteva in un nastro suddiviso in tanti quadratini, una specie di rotolo di carta igienica lungo il quale si muoveva un piccolo scanner verificando se il quadratino passato al setaccio era marcato con uno 0 oppure un 1. Turing riuscì a dimostrare che malgrado la sua semplicità questa macchina avrebbe saputo cavarsela egregiamente in ogni sorta di calcolo. Il matematico profuse molte energie per mettere a punto una tecnologia con cui realizzare concretamente questa macchina, ma la sua passione per i calcoli complessi rimase sempre essenzialmente filosofica. «Sono più interessato alla possibilità di definire modelli del funzionamento del cervello che non alle applicazioni pratiche della computazione» scrisse a un amico. Ciò non gli impedì comunque di immaginare che in un futuro non troppo lontano l’uomo avrebbe costruito macchine così sofisticate da essere scambiare per veri e propri organi pensanti. Nel 1950 ideò perfino un test per stabilire se una macchina sia effettivamente capace di pensare. Leavitt ritiene che l’ipotesi di un computer capace di simulare i ragionamenti di un essere umano rimanda inevitabilmente al comportamento di un gay che cerchi di passare per eterosessuale. Turing ammetteva che alcune qualità umane trascendono probabilmente le capacità di qualunque macchina come, per esempio, apprezzare il gusto delle fragole alla panna. Secondo Leavitt, le fragole alla panna sarebbero «un’espressione in codice che indica certi gusti che Turing preferisce non nominare». Che sia davvero così nessuno potrà mai dimostrarlo ma nemmeno negarlo. Quel che al momento può essere negato è che la mela che fa da logo alla nota marca di computer sia un riferimento in codice a Turing. Sono i vertici dell’azienda a farlo sostenendo che è Newton lo scienziato che hanno inteso omaggiare con quel simbolo. Una versione difficile da accettare perché non si capisce proprio quale contributo fondamentale abbia dato Newton all’invenzione del computer. Inoltre, la mela del logo è morsicata, mentre quella di Newton cadde da un albero come madre natura l’aveva fatta. Forse procurò un bel bernoccolo allo scienziato ma non ci risulta che egli l’abbia mai mangiata. Una cosa è certa, però. Per un verso o per l’altro, da Adamo ed Eva in poi, c’è sempre di mezzo lo stesso frutto. Il tempo delle mele non passa mai, a quanto pare.
Federico Peiretti, Misteri di Turing,  “La stampa”, 21 dicembre 1991

 Poco dopo la pubblicazione dell'ultimo romanzo di George Orwell, 1984, Alan Turing, il padre del pensiero informatico, doveva restare vittima di un reale, terrificante incubo orwelliano. Come Winston, il protagonista del romanzo, rinchiuso in una cella, al Ministero dell'Amore, anch'egli era destinato a subire un allucinante processo di rieducazione. 
Nel corso delle indagini seguite ad una sua denuncia di furto, Turing aveva ingenuamente confessato alla polizia la propria omosessualità. Il geniale logico matematico aveva sicuramente calcolato i rischi della sua confessione, convinto per che i pregiudizi dell'epoca vittoriana fossero ormai tramontati per sempre e che fosse possibile affrontare, anche provocatoriamente, certi temi. Purtroppo si sbagliava e così il 31 marzo 1952 si trovò sul banco degli imputati, accusato di gross indecency, gravi atti osceni. Riconosciuto colpevole, venne rimesso in libertà, ma sotto la stretta sorveglianza di un funzionario di polizia e condannato a subire un trattamento a base di ormoni femminili che lo resero impotente. 
"Ho avuto la libertà condizionata per un anno, e in più l'obbligo di fare questa organoterapia per lo stesso periodo. Si presuppone - scriveva, turbato, Turing ad un amico - che essa attenui l'impulso sessuale finché è in corso, ma che una volta terminata si ritorni ad essere normali. Spero che non si sbaglino. A quanto pare, gli psichiatri hanno ritenuto inutile tentare una psicoterapia". Un amico, invitato a cena in casa sua, ebbe la sorpresa di trovare a tavola un altro ospite: il poliziotto incaricato di sorvegliare Turing nel periodo di libertà vigilata.
Turing era rimasto affascinato dal romanzo di Orwell, con il quale aveva molte cose in comune. Entrambi infatti erano figli di funzionari dell'Impero Britannico in India e appartenevano a quella che Orwell aveva definito la classe sociale "medio - superiore - inferiore". Ed anche se Turing non avrebbe certo potuto contare sulla comprensione di Orwell per quelli che lo scrittore aveva definito "maniaci sessuali", li legava la profonda convinzione della necessità di difendere la libertà dell'individuo contro ogni violenza e contro la concezione di un potere che, secondo il Grande Fratello, "consiste nell'infliggere la sofferenza e la mortificazione. Il potere consiste nel fare a pezzi i cervelli degli uomini e nel ricomporli in nuove forme e combinazioni di nostro gradimento. [...] L'istinto sessuale verrà sradicato. Noi aboliremo lo stesso piacere sessuale. I nostri neurologi stanno facendo ricerche in proposito". 
La sera del 7 giugno 1954, "il più freddo e il più umido lunedì di Pentecoste degli ultimi cinquant'anni", Turing si uccise mangiando, come Biancaneve, una mela avvelenata intinta nel cianuro. Ma sulla sua morte, che un'inchiesta affrettata si limitò ad archiviare come suicidio, rimangono molte ombre. 
Il dubbio che qualcuno lo abbia ucciso oppure che lo abbia spinto al suicidio, ha portato Andrew Hodges, matematico di Cambridge, ad una minuziosa indagine sulla sua vita e in questi giorni arriva in libreria la traduzione italiana del grande libro in cui ha raccolto i risultati della sua inchiesta (Storia di un enigma - Bollati Boringhieri, pp. 762, 2003). Si tratta di un libro di matematica che si legge come un romanzo, fedele ricostruzione dell'ambiente scientifico-militare in cui è nato il computer. 
La figura che emerge dalle testimonianze degli amici e dei collaboratori è quella di un uomo scontroso e solitario. Turing, cresciuto nella tetra e opprimente atmosfera delle public school e dei college inglesi, non aveva un carattere facile. La sua adolescenza ricorda le vicende del protagonista di uno dei più bei film del cinema inglese: Gioventù, amore e rabbia di Tony Richardson. Turing chiuso in se stesso, si faceva detestare dagli insegnanti e dileggiare dai compagni. Il racconto della sua vita scolastica è tale da incoraggiare anche il più mediocre degli studenti. Un suo insegnante diede di lui questo giudizio, quando a quindici anni si trovava alla Sheborne School, nel Dorset: "E' grottescamente indietro in tutto". E veniva classificato ultimo della classe nei giudizi degli insegnanti che non avevano capito la sua sensibilità e le sue doti particolari.
Turing viveva in un disordine incredibile, "non si curava delle apparenze, e soprattutto non badava al suo aspetto, che normalmente era quello di uno appena alzato"; la sua voce e le sue risatine stridule e aspre "riuscivano a innervosire anche gli amici". Era un buon maratoneta e sfogava nella corsa le sue ansie e le sue tensioni. Riuscì anche a distinguersi in diverse gare a livello nazionale, ma la sua speranza di riuscire a qualificarsi per entrare nella squadra olimpica andò delusa per una noiosa lussazione all'anca. 
Hodges, nella sua indagine, mette in evidenza i rapporti ad alto livello che Turing aveva avuto, durante la Seconda Guerra Mondiale, con i servizi segreti inglesi e americani, dei quali conosceva ogni cosa: capi, strutture, metodi e attrezzature. Dopo il processo, con la rivelazione delle sue tendenze omosessuali, era inevitabile che fosse considerato un soggetto pericoloso per la sicurezza nazionale, non affidabile, facilmente esposto a ricatti e, per questo, potevano essere in molti a desiderare la sua scomparsa. 
Quello che era sempre stato tenuto accuratamente nascosto, sepolto negli archivi militari, era il ruolo decisivo che egli aveva avuto nella sconfitta del nazismo, con la decifrazione dei codici segreti tedeschi. Nella sua battaglia contro ENIGMA, la macchina che i tedeschi usavano per mettere in cifra tutte le loro comunicazioni radio di servizio, aveva avuto carta bianca da Churchill in persona e, per i suoi successi, al termine della guerra, venne insignito con la prestigiosa onorificenza dell'Ordine dell'Impero Britannico. 
L'ampia descrizione della battaglia fra i "criptanalisti" inglesi e i loro colleghi tedeschi, assolutamente convinti che la loro macchina fosse inattaccabile, mentre invece gli inglesi riuscivano a mettere in chiaro ogni loro messaggio, rivela il ruolo fondamentale svolto dai matematici nelle sorti del conflitto ed anche l'importanza basilare delle ricerche sulle macchine di "crittazione" per lo sviluppo dei calcolatori. 
Nel 1936 Turing, aveva pubblicato uno studio sui "numeri calcolabili" in cui descriveva una macchina ideale che definiva esattamente i limiti e le possibilità del computer, molti anni prima che questo venisse effettivamente costruito. Il suo lavoro sui codici segreti gli mise a disposizione uomini e mezzi per poter verificare in pratica le sue idee: la guerra apriva nuovi, immensi orizzonti alla scienza. Le macchine che Turing costruì, per decifrare i messaggi nemici, erano la realizzazione delle sue macchine ideali e i successivi progressi tecnologici, con il passaggio dai relè ai "tubi elettronici" e in seguito ai transistor, permisero, alla fine della guerra, rapidi progressi nella costruzione delle nuove macchine di calcolo. 
I primi computer, l'ENIAC americano o l'ACE inglese, devono la loro impostazione proprio alle idee fondamentali di Turing. Per questo egli è giustamente considerato il padre del computer. 
All'inizio degli anni cinquanta, proprio con l'avvento dei primi computer, si aprì un dibattito sui limiti e sul futuro dell'intelligenza artificiale. Nel 1945 Lord Mountbatten tenne uno storico discorso in cui parlava della possibilità di produrre "cervelli elettronici", macchine "in grado di esercitare le prerogative fino ad oggi esclusivamente umane della scelta e del giudizio". E proseguiva dicendo: "Ora che la macchina dotata di memoria e il cervello elettronico sono con noi, ci troviamo di fronte a una nuova rivoluzione: non una rivoluzione industriale, ma una rivoluzione della mente. E le responsabilità degli scienziati ci appaiono oggi formidabili e gravi". Parlando alla radio, nel 1951, Turing affermò provocatoriamente: "Datemi una definizione dell'intelligenza e io vi dimostrerò che il computer può essere intelligente".
Il libro di Hodges riporta l'ampio dibattito che le nuove macchine di calcolo provocarono sul "cervello elettronico". Turing osservava: "L'intera questione dei processi del pensiero rimane un mistero, ma io credo che il tentativo di costruire una macchina pensante ci aiuterà grandemente a scoprire in che modo pensa l'essere umano". Per verificare l'intelligenza del computer Turing ideò un famoso test, noto proprio come Test di Turing: un uomo e un computer rispondono alle domande di chi conduce il test attraverso una tastiera, in modo che, senza essere visti, compaiano solo le loro risposte su uno schermo. Se non è possibile distinguere le risposte dell'uomo da quelle del computer vorrà dire che anche quest'ultimo è "intelligente". HAL 9000, il computer di 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO, ad esempio, avrebbe sicuramente superato questa prova. Ma siamo nella fantascienza. Nella realtà è possibile pensare ad una macchina simile? 
"E' consueto offrire un briciolo di conforto, dichiarando che certe caratteristiche peculiari dell'uomo non potranno mai essere imitate da una macchina - affermava Turing - Io però non sono in grado di offrire un simile conforto, perché credo che limiti di questo genere non si possano porre". Solo oggi, con i travolgenti sviluppi dell'informatica e della tecnologia del computer, possiamo capire il valore delle sue geniali intuizioni. 
Turing ricordava il film di Walt Disney, BIANCANEVE E I SETTE NANI, ed era rimasto colpito dalla scena della strega malvagia che immergeva la mela nella mistura avvelenata. Quando era al lavoro, sulle sue macchine, canticchiava sovente la strofetta dell'incantesimo: 
Metti, metti la mela nell'intruglio,
Che s'imbeva del sonno della morte.
Tragica profezia della sua fine, un enigma ancora irrisolto.









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